I PERSONAGGI
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È la madre di Lucia, un'anziana vedova che vive con l'unica figlia in una casa posta in fondo al paese: di lei non c'è una descrizione fisica, ma è presentata come una donna avanti negli anni, molto attaccata a Lucia per quale "si sarebbe... buttata nel fuoco", così come è sinceramente affezionata a Renzo che considera quasi come un secondo figlio. Viene introdotta alla fine del cap. II, quando Renzo informa Lucia del fatto che le nozze sono andate a monte, e in seguito viene descritta come una donna alquanto energica, dalla pronta risposta salace e alquanto incline al pettegolezzo (in questo non molto diversa da Perpetua). Rispetto a Lucia dimostra più spirito d'iniziativa, poiché è lei a consigliare a Renzo di rivolgersi all'Azzecca-garbugli (III), poi propone lo stratagemma del "matrimonio a sorpresa" (VI) e in seguito invita don Abbondio e Perpetua a rifugiarsi nel castello dell'innominato per sfuggire ai lanzichenecchi (XXIX). È piuttosto economa e alquanto attaccata al denaro, se non proprio avara, come si vede quando rimprovera Lucia di aver dato troppe noci a fra Galdino (III) e nella cura che dimostra nel custodire il denaro avuto in dono dall'innominato. A differenza dei due promessi sposi non si ammala di peste (ci viene detto nel cap. XXXVII) e, dopo il matrimonio, si trasferisce con Renzo e Lucia nel Bergamasco, dove vive con loro ancora vari anni. Del defunto marito e padre di Lucia non viene mai fatta parola e, curiosamente, il fatto che Agnese sia vedova viene menzionato solo nel cap. XXXVII, quando la donna torna al paese e trova la casa quasi intatta dopo il periodo della peste (il narratore osserva che "questa volta, trattandosi d’una povera vedova e d’una povera fanciulla, avevan fatto la guardia gli angioli").
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È un cugino di Agnese che vive a Maggianico (un paesino non lontano da Lecco) e viene nominato dalla donna nel cap. XXVI, quando si reca a far visita a Lucia nella villa di donna Prassede e le parla del denaro ricevuto in dono dall'innominato: Agnese manifesta il proposito di riunirsi con la figlia e Renzo, rifugiato nel Bergamasco dopo i fatti di S. Martino, dunque progetta di andare a prendere in seguito la ragazza a Milano insieme a un "uomo di proposito" quale, a suo dire, è Alessio. Poco dopo Lucia, che nel frattempo ha rivelato alla madre il voto, la prega di informare Renzo con una lettera, suggerendole di farsela scrivere da Alessio che dunque è un "contadino letterato" e svolge forse abitualmente le funzioni di segretario per i suoi compaseani. Nel cap. XXVII Agnese riceve una lettera da parte di Renzo (che a sua volta l'ha fatta redigere da uno scrivano, essendo anche lui semi-analfabeta) e si reca a Maggianico per farsela leggere da Alessio, al quale chiede poi di scriverne un'altra. Inizia così una bizzarra corrispondenza tra la donna e Renzo, resa assai difficile dall'analfabetismo dei due personaggi e dal modo stentato in cui questo tipo di carteggio avveniva nel XVII secolo, e anche nel XIX come l'autore subito precisa: il contadino che sa scrivere non è un raffinato intellettuale e spesso la redazione della lettera è imprecisa e piena di fraintendimenti, così come poi la sua decifrazione da parte di chi la riceve (Alessio è definito ironicamente "turcimanno", ovvero interprete). È questo il solo episodio di cui è protagonista ed è una figura minore, che non appare mai come personaggio vero e proprio e ha esclusivamente la funzione di esemplificare le difficoltà causate dalla condizione degli illetterati come Agnese (si veda, in proposito, l'approfondimento allo stesso cap. XXVII).
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È un poliziotto travestito da popolano che si mescola alla folla dei rivoltosi durante il tumulto di S. Martino a Milano: compare nel cap. XIV e la sua attenzione è attirata da Renzo il quale, eccitato dagli avvenimenti della giornata (il giovane ha assistito all'assalto al forno delle Grucce e alla casa del vicario di Provvisione, tratto in salvo da Ferrer) arringa la folla con un improvvisato discorso in cui invoca giustizia contro tutti i signori prepotenti. Il poliziotto lo prende per uno dei capi della rivolta e in seguito lo avvicina, proponendo di guidarlo a un'osteria dove farlo alloggiare: Renzo cade ingenuamente nella trappola e lo segue, senza sospettare che lo sbirro vorrebbe addirittura condurlo "caldo caldo alle carceri" (l'autore preciserà l'identità e le reali intenzioni dell'uomo nel cap. XV, benché molti indizi ne svelino le intenzioni già in precedenza). Renzo entra poi nell'osteria della Luna Piena, essendo troppo stanco per proseguire, e il poliziotto è costretto a seguirlo nella locanda il cui oste lo conosce bene e si lamenta tra sé di averlo tra i piedi in quella giornata tumultuosa.
In seguito Renzo mostrerà ingenuamente al suo compagno e agli altri avventori dell'osteria l'ultimo dei pani raccolti a terra al suo ingresso a Milano (XI), affermando di averlo trovato e dicendosi pronto a pagarlo al proprietario, cosa che fa molto ridere la brigata (agli occhi del poliziotto è un'ammissione del fatto che Renzo abbia preso parte all'assalto dei forni). Lo sbirro dice all'oste che Renzo intende fermarsi a dormire e questo è un segnale al padrone del locale, il quale si affretta a chiedere al giovane il nome e il luogo di provenienza: Renzo protesta vivacemente e l'oste gli mostra una copia della grida che impone agli osti di chiedere tali informazioni, suscitando le rimostranze del giovane che ha bevuto molti bicchieri di vino e a cui l'alcool comincia a dare alla testa. Il poliziotto suggerisce all'oste di non insistere oltre per non insospettire Renzo, quindi riesce a estorcergli il nome con un astuto strategemma: propone di dare a ciascuno il giusto quantitativo di pane tramite un biglietto con scritto il nome, la professione e i familiari a carico, dicendo di chiarmarsi Ambrogio Fusella e di svolgere il mestiere di spadaio (si tratta con tutta evidenza di un nome falso); Renzo cade nell'inganno e dice di chiamarsi Lorenzo Tramaglino, dando quindi al poliziotto ciò che gli serve per spiccare in seguito un mandato di arresto nei suoi confronti. A questo punto il sedicente spadaio è soddisfatto e tronca in fretta la discussione con Renzo, affrettandosi ad alzarsi e a uscire dall'osteria, incurante del giovane che vorrebbe trattenerlo per bere un altro bicchiere di vino.
Il personaggio è protagonista di un episodio in cui viene mostrata la condotta subdola e assolutamente sleale degli uomini di legge, i quali non sono interessati a svolgere indagini per stabilire la verità, ma solo a trovare dei capri espiatori della rivolta per assicurarli alla giustizia e infliggere punizioni esemplari come deterrente per il popolo (Renzo è giudicato un capo della sommossa in quanto ha fatto un discorso in piazza, il che è sufficiente per ordinare il suo arresto anche in mancanza di prove certe). Ciò è parte della polemica contro l'inefficienza della giustizia che attraversa il romanzo e che avrà ulteriori risvolti nella vicenda degli untori cui l'autore accenna nel cap. XXXII, ripresa nella Storia della colonna infame posta in appendice al libro.
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È il il nobile genovese che nel 1629 sostituisce don Gonzalo Fernandez de Cordoba nella carica di governatore di Milano, dopo la sua rimozione in seguito al cattivo esito della guerra e dell'assedio di Casale del Monferrato: personaggio storico, lo Spinola (1569-1630) fu condottiero al servizio dell'arciduca Alberto, governatore dei Paesi Bassi dominati dalla Spagna, e prese parte alla guerra di Fiandra ottenendo la resa di Ostende (1604), anche se in seguito la Spagna preferì giungere a un accordo con le Province Unite. Divenuto governatore di Milano, gli fu ordinato di prendere Casale ai Francesi ma fallì nell'impresa, ritirandosi in seguito nel suo feudo di Castelnuovo Scrivia dove morì. L'autore lo introduce nel cap. XXVIII del romanzo, dando notizia del suo avvicendamento al governo milanese al posto di don Gonzalo, quindi lo nomina nuovamente nel cap. XXXI dedicato alla peste del 1629-30, allorché Alessandro Tadino e un altro commissario del Tribunale di Sanità lo pregano di assumere provvedimenti urgenti per stringere un cordone sanitario intorno alla città: lo Spinola risponde che la situazione lo affligge, ma le preoccupazioni della guerra sono più pressanti e in sostanza non prende alcuna decisione. Pochi giorni dopo, il 18 nov. 1629, ordina con una grida che si tengano pubblici festeggiamenti per la nascita del primogenito di re Filippo IV, incurante del fatto che un gran concorso di folla nelle strade di Milano non potrà che accrescere il pericolo del contagio, che infatti si diffonderà ampiamente nei mesi seguenti. All'inizio del cap. XXXII viene ricordato che il 4 maggio 1630, quando ormai la peste sta infuriando nella città di Milano e diventa sempre più difficile far fronte alle necessità pubbliche coi pochi denari a disposizione, due decurioni (i magistrati cittadini che si occupavano del governo municipale) si recano al campo di Casale per pregare il governatore di sospendere il pagamento delle imposte e le spese per l'alloggiamento dei soldati, nonché di concedere alla città i fondi necessari per fronteggiare al meglio la calamità. La risposta scritta dello Spinola è desolante, in quanto egli manifesta il suo dispiacere per la situazione ma non prende alcun concreto provvedimento, apponendo in calce "un girigogolo, che voleva dire Ambrogio Spinola, chiaro come le sue promesse". Il gran cancelliere Antonio Ferrer manifesta al governatore il suo disappunto in altre lettere, finché il governatore lo investe della responsabilità di far fronte alla peste, poiché lui è impegnato nelle operazioni belliche.
L'autore condanna con impietosa ironia la sua figura, simile a quella di don Gonzalo per la volontà caparbia di fare la guerra e la sordità ai problemi della popolazione a lui sottomessa, mentre viene criticata anche la storiografia ufficiale che ne ha esaltato la condotta militare e ne ha invece sottaciuto le gravi colpe nel sottovalutare il pericolo della peste e nel non assumere i necessari provvedimenti per arginare il contagio. Manzoni ricorda non senza un certo sarcasmo che lo Spinola morì pochi mesi dopo nel corso della guerra, non sul campo di battaglia ma nel proprio letto, struggendosi per i rimproveri che gli venivano mossi e che lui riteneva ingiusti (il personaggio è parte della critica al mondo del potere che attraversa l'intero romanzo, benché non abbia un vero ruolo narrativo nelle vicende dei Promessi sposi).
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È il sagrestano di don Abbondio, un uomo presumibilmente di mezza età che abita in uno stanzino (definito dall'autore un "piccolo abituro", un "bugigattolo") contiguo alla chiesa: compare nel cap. VIII, quando sente le grida del curato che è sfuggito al tentativo di "matrimonio a sorpresa" e si è affacciato da una finestra della sua casa che dà sulla piazza antistante la chiesa. L'uomo si affaccia a sua volta a una "finestrina" e don Abbondio lo informa che c'è "gente in casa", quindi il sagrestano afferra i pantaloni cacciandoseli sotto il braccio come "un cappello di gala", si precipita al campanile e inizia a suonare le campane a martello, per richiamare quanta più gente possibile. In seguito riferisce ai paesani accorsi in aiuto che il curato ha subìto un'aggressione, indossando le brache ma non avendo il tempo di abbottonarle, per cui apre la porta della chiesa con una mano e con l'altra si regge i calzoni (il suo personaggio, del tutto secondario, è una delle figure comiche forse più riuscite del romanzo). Ambrogio ricompare verso la fine della vicenda (cap. XXXVIII), quando conferma a don Abbondio l'avvenuta morte di don Rodrigo e dice di aver parlato col marchese suo erede, appena giunto al palazzotto del nobile defunto (è Renzo a chiamarlo in causa, per convincere il curato che ormai non c'è più pericolo).
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È il gran cancelliere dello Stato di Milano che esercitò tale carica tra il 1619 e il 1635, sostituendo nel 1628 il governatore don Gonzalo Fernandez de Cordoba impegnato nell'assedio di Casale del Monferrato: è uno dei personaggi storici del romanzo ed è in qualche modo protagonista della rivolta per il pane scatenatasi a Milano il giorno 11 novembre 1628, narrata nei capp. XI, XII e XIII del libro. Essa trae origine dall'insensata decisione presa proprio dal Ferrer di imporre un calmiere (ovvero un tetto massimo) sul prezzo del pane, che non tiene conto delle leggi di mercato e provoca un ribasso forzoso, che ha come conseguenza l'accorrere del popolo ai forni per acquistare il pane a buon mercato (XII). I fornai ovviamente protestano per l'insostenibile perdita economica e chiedono a gran voce la revoca del calmiere, ma il gran cancelliere dichiara che i bottegai si sono molto avvantaggiati in passato e torneranno ad arricchirsi quando la carestia sarà finita, quindi rifiuta di revocare il provvedimento che lo ha reso tanto popolare presso i cittadini milanesi e lascia ad altri l'incombenza di farlo (l'autore osserva con amara ironia che non sa se attribuire ciò alla testardaggine dell'uomo oppure alla sua incompetenza, giacché è impossibile ora entrare nella sua testa per capire cosa pensasse). Il risultato è che il governatore incarica una commissione di decidere in merito alla questione e la revoca del calmiere stabilita da essa scatena la rabbia del popolo e la sommossa.
Ferrer compare poi come personaggio direttamente nel cap. XIII, allorché giunge in carrozza a trarre in salvo Ludovico Melzi d'Eril, il vicario di Provvisione che la folla sta assediando nella sua casa per linciarlo in quanto presunto responsabile della penuria (in realtà, com'è ovvio, il funzionario non ha alcuna colpa). Il gran cancelliere è accolto con acclamazioni di giubilo dalla folla in tumulto, alla quale è gradito per il calmiere imposto sul pane, quindi il funzionario blandisce i rivoltosi con parole lusinghiere promettendo di condurre il vicario in prigione e di volerlo castigare, ma aggiungendo alcune parole in spagnolo ("si es culpable...", se è colpevole) per ingannare la gente che non è in grado di comprendere. Dopo che la carrozza è avanzata lentamente tra la folla assiepata di fronte alla casa del vicario (in mezzo alla quale c'è anche Renzo che si dà un gran daffare per aiutare Ferrer ad arrivare alla porta), il gran cancelliere scende e riesce non senza fatica a infilarsi nella casa, da dove poi trae il vicario che fa salire sulla carrozza e conduce via, continuando a rivolgersi alla folla e a promettere severi castighi verso il funzionario, al quale tuttavia spiega in spagnolo che dice questo solo "por ablandarlos", per rabbonirli. Quando finalmente la carrozza è lontana dal tumulto e i due sono protetti da alcuni soldati, Ferrer mostra il suo vero volto rispondendo in modo cinico al povero vicario, il quale manifesta l'intenzione di lasciare la sua carica e di ritirarsi in una "grotta", mentre il cancelliere dice che egli farà ciò che sarà più conveniente per il servizio al re spagnolo. La figura del Ferrer è delineata in maniera ironica e impietosa dall'autore, che lo rappresenta dapprima come un testardo incompetente che con i suoi provvedimenti insensati è stato causa della rivolta, poi come un attore consumato che riesce ad abbindolare la folla con un discorso ingannevole e un uso astuto del linguaggio, sia pure per ottenere il nobile fine di salvare il vicario dal linciaggio (si veda l'approfondimento del cap. XIII).
Viene citato in precedenza nel cap. III, quando l'Azzecca-garbugli mostra a Renzo la grida del 15 ottobre 1627 che prevede pene severissime a chi minaccia un curato e in calce alla quale il giovane legge la firma del gran cancelliere, "vidit Ferrer" (Renzo se ne ricorderà nel cap. XIII, quando il funzionario arriverà in carrozza e lui chiederà ai rivoltosi se è "quel Ferrer che aiuta a far le gride"). In seguito Renzo lo cita più volte come un galantuomo che aiuta la povera gente nel suo improvvisato discorso di fronte alla folla (XIV), quando attira l'attenzione del poliziotto travestito, mentre nel momento in cui il notaio criminale lo arresta (XV) chiede di essere condotto dal gran cancelliere, affermando che quello gli è debitore (il giovane allude al fatto che ha dato una mano a far stare indietro la folla, quando la carrozza di Ferrer ha raggiunto la casa del vicario di Provvisione). Si parla ancora di lui nel cap. XXVIII, quando l'autore spiega che a Milano, in seguito alla rivolta dell'11 e del 12 novembre 1628, il pane si vende nuovamente a buon prezzo e ciò in forza di provvedimenti di legge tra cui una grida datata 15 novembre a firma del gran cancelliere, in cui si minacciano pene severe a chiunque acquisti pane in misura eccedente il bisogno e ai fornai che non ne vendano al pubblico in quantità sufficiente (Manzoni osserva con la consueta ironia che, se tali gride fossero state eseguite, il ducato di Milano avrebbe avuto più galeotti della Gran Bretagna nel XIX secolo). All'inizio del cap. XXXII, infine, viene detto che il nuovo governatore di Milano, Ambrogio Spinola, risponde in modo evasivo alle insistenti richieste dei decurioni (i magistrati municipali della città) in merito alle strettezze economiche per far fronte alla peste, cosicché il Ferrer gli scrive che la sua risposta era stata letta dai decurioni "con gran desconsuelo" (con vivo dispiacere) e in seguito lo Spinola trasferisce con "lettere patenti" al gran cancelliere tutti i poteri in merito all'epidemia, dal momento che il governatore è impegnato nell'assedio di Casale del Monferrato.
Legato a Ferrer è anche il personaggio del suo cocchiere, lo spagnolo Pedro, al quale il gran cancelliere (XIII) si rivolge con parole in spagnolo che sono quasi passate in proverbio ("Pedro, adelante con juicio", avanti con prudenza, in riferimento alla difficoltà di far avanzare la carrozza in mezzo alla folla).
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È un avvocato che vive a Lecco ed è intimo amico di don Rodrigo, nonché suo compagno di bagordi e complice delle sue prepotenze a cui trova spesso delle scappatoie legali: è un personaggio secondario ed è descritto come un uomo alto, magro, con la testa pelata, il naso rosso (ciò è dovuto probabilmente al vizio del bere) e una voglia di lampone sulla guancia. Viene introdotto nel cap. III, quando Agnese consiglia a Renzo di recarsi da lui per chiedere un parere legale circa il sopruso subìto da parte di don Rodrigo, che ha minacciato don Abbondio perché non celebrasse il matrimonio: la donna spiega al giovane che quello di "Azzecca-garbugli" è un soprannome (allude alla presunta capacità di sbrogliare le questioni giudiziarie), mentre il vero nome dell'avvocato non viene mai fatto. Renzo si reca nel suo studio, descritto come un luogo decadente che ispira un'impressione di trascuratezza, ed espone il suo caso, ma l'avvocato cade in un grossolano equivoco e scambia Renzo per un bravo, spiegandogli poi come farà a tirarlo fuori dai guai (ovvero subornando testimoni, minacciando le vittime e invocando la protezione dei potenti); in questa occasione viene citata la grida datata 15 ottobre 1627 in cui sono previste pene per chi minaccia un curato, documento che diede a Manzoni l'idea base per il romanzo. Quando Renzo fa il nome di don Rodrigo, l'avvocato va su tutte le furie e caccia via malamente il giovane, restituendogli i capponi che aveva portato in dono e non volendo sentire ragioni. Renzo definirà poi il legale "signor dottor delle cause perse" (cap. V), espressione divenuta in certo modo proverbiale a indicare un avvocaticchio di scarso valore.
Il personaggio ricompare nello stesso cap. V, fra i commensali che siedono alla tavola di don Rodrigo nel suo palazzo, quando il padre Cristoforo si reca lì per parlare al signorotto: l'avvocato è piuttosto brillo, col naso più rosso del solito, e indossa il mantello nero che portavano gli uomini di legge; si schermisce in modo goffo quando è chiamato in causa nella sciocca disputa cavalleresca che oppone il conte Attilio e il podestà, e in seguito si produce in un brindisi alquanto scomposto, elogiando la bontà del vino e la magnificenza del padrone di casa in tempi di carestia. Nel cap. XI don Rodrigo medita di rivolgersi all'Azzecca-garbugli per fare accusare Renzo di qualche reato, onde evitare che il giovane possa tornare dopo la fuga dal paese, mentre nel cap. XXV, dopo la conversione dell'innominato e il fallimento dei piani di don Rodrigo, la gente del paese inizia ad additare l'avvocato e altri "cortigianelli suoi pari" come complici del signorotto, per cui il dottore evita in seguito di uscire per un po'. La sua morte viene menzionata nel cap. XXXVIII, col dire che la sua spoglia "era ed è tuttavia a Canterelli", ovvero un cimitero vicino Lecco dove erano sepolte molte vittime della peste.
L'avvocato è presentato come un personaggio buffo e sgraziato, quasi un carattere da commedia (e infatti il suo colloquio con Renzo nel cap. III è una sorta di "commedia degli equivoci"), che rappresenta il decadimento e il degrado della giustizia nel XVII secolo; è anche l'esempio di un vile cortigiano e di un parassita che sfrutta don Rodrigo, mettendosi al servizio dei suoi propositi delittuosi.
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È una bambina presente in casa di Lucia e Agnese la mattina del previsto matrimonio (cap. II), che all'arrivo di Renzo lo accoglie gridando: "Lo sposo! Lo sposo!": il giovane la invita a stare zitta e la incarica di salire al piano di sopra e di dire all'orecchio di Lucia una parola, per indurre la giovane a scendere di sotto e parlare col suo promesso senza dare troppo nell'occhio. La bambina esegue l'ordine e si sente fiera di svolgere quell'incarico che le sembra di responsabilità.
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È il cugino di Renzo che vive e lavora in un paese vicino a Bergamo (nel territorio che all'epoca faceva parte della Repubblica di Venezia) e che offre rifugio e lavoro al protagonista dopo la sua fuga da Milano in seguito al tumulto di S. Martino, quando è braccato dalla giustizia: è nominato per la prima volta nel cap. VI, quando Agnese propone lo stratagemma del "matrimonio a sorpresa" e Renzo progetta a sua volta di trasferirsi con Lucia e la madre nel Bergamasco, dove appunto suo cugino Bortolo è impiegato in un filatoio di seta e dove ha spesso invitato il protagonista a raggiungerlo, poiché in quel territorio gli operai della seta sono molto richiesti. In seguito Renzo sarà costretto a rifugiarsi nel Bergamasco come fuggitivo e qui raggiungerà il cugino nel paese in cui vive (XVII), ricevendo una calorosa accoglienza nel filatoio in cui lavora e di cui l'uomo è diventato il factotum, essendo tra l'altro il braccio destro del proprietario (viene lasciato intendere che l'uomo è nato nello stesso paese del protagonista e che conosce bene Lucia e Agnese, dunque si è trasferito tempo prima nel Bergamasco senza tuttavia che sia precisato quando ciò è avvenuto). Bortolo spiega a Renzo che in questo momento non c'è richiesta di operai a causa della crisi, ma aiuterà comunque il cugino in quanto gode del favore del padrone e ha messo da parte discreti guadagni, perciò sarà lieto di condividere questo benessere con un membro della famiglia. Informa Renzo del fatto che la carestia è presente anche in quel territorio, tuttavia la politica dello Stato veneto è più oculata di quella di Milano e questo permette di alleviare le sofferenze della popolazione, sia con l'acquisto di grano a buon mercato proveniente dalla Turchia, sia con l'importazione di miglio per produrre del pane a minor prezzo. Bortolo spiega infine al cugino che i Milanesi vengono definiti dai Bergamaschi "baggiani" (sciocchi), cosa che irrita Renzo ma alla quale dovrà rassegnarsi poiché si tratta di un'usanza inveterata, cui è necessario abituarsi se si vuol vivere in quel territorio; presenta poi Renzo al suo padrone e gli procura un impiego al filatoio e un ricovero, sistemandolo alla meglio durante il primo periodo della sua "latitanza".
Tempo dopo l'uomo è informato del fatto che la giustizia della Repubblica sta facendo indagini su Renzo (XXVI), in seguito alle proteste che il governatore don Gonzalo ha rivolto al residente di Venezia a Milano, quindi si affretta a consigliargli di cambiare paese e trovare lavoro in un altro filatoio, cambiando anche nome per prudenza: lo presenta come Antonio Rivolta al padrone di un altro stabilimento a circa quindici miglia dal suo paese, raccomandando il cugino come ottimo lavoratore della seta e riuscendo a sistemarlo lì (il proprietario è suo amico e originario lui pure del Milanese). In seguito risponde alle molte domande sulla scomparsa di Renzo in modo evasivo, diffondendo voci contraddittorie sulla sua sorte che arrivano all'orecchio di Agnese e non consentono neppure al cardinal Borromeo di prendere informazioni sul giovane fuggiasco, come aveva promesso alla donna e a Lucia.
Renzo resta nel suo nuovo nascondiglio per cinque o sei mesi, al termine dei quali Bortolo si affretta a richiamarlo al suo paese in quanto Venezia e la Spagna sono ora nemiche nella guerra di Mantova e non c'è più pericolo (XXXIII): l'autore spiega la sollecitudine di Bortolo perché questi è sinceramente affezionato al cugino, ma soprattutto perché al filatoio Renzo era di grande aiuto al factotum senza potere aspirare a occupare quella funzione in quanto semi-analfabeta (apprendiamo che l'aiuto offerto a Renzo non è del tutto disinteressato e l'autore osserva con ironia che forse i lettori vorrebbero "un Bortolo più ideale", ma quello "era così"). Dopo aver appreso per lettera del voto di Lucia, Renzo coltiva più volte il proposito di arruolarsi e partecipare alla guerra contro il Ducato di Milano, specie nell'eventualità che sembra imminente di un'invasione di questo da parte di Venezia, ma Bortolo riesce a dissuaderlo illustrandogli i pericoli dell'impresa e mostrandosi scettico sulla sua riuscita (si intuisce che, anche in questo caso, i consigli dell'uomo non sono del tutto spassionati). Per gli stessi motivi dissuade Renzo dal proposito di tornare al suo paese sotto mentite spoglie, finché scoppia l'epidemia di peste del 1630 e il giovane si ammala, riuscendo però a guarire e decidendo di approfittare del flagello per tornare nel Milanese: informa della sua risoluzione Bortolo, che è ancora sano e perciò gli parla da una finestra, augurandogli buon viaggio ed esortandolo a tornare da lui alla fine della pestilenza (Renzo promette di farlo e spera di non tornare da solo).
Alla fine delle vicende del romanzo Renzo va a stabilirsi con le due donne nel paese di Bortolo (XXXVIII) e questi, venuto a sapere che il padrone di un filatoio alle porte di Bergamo è morto di peste e il figlio intende vendere la fabbrica, propone al cugino di entrare in società per rilevarlo: Renzo accetta e così i due acquistano lo stabilimento, iniziando una lucrosa attività che, dopo gli stentati inizi, diventa quanto mai florida.
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È il sacerdote che svolge le funzioni di segretario particolare del cardinal Borromeo, solitamente addetto a portare la croce nelle funzioni solenni (da qui il nome): compare nel cap. XXII, allorché l'innominato si reca a visitare il cardinale e si incarica di riferire al prelato la presenza del famoso bandito, cosa che fa non senza remore e timori. In seguito annunzia a Federigo che l'innominato vuole vederlo (XXIII) e si mostra assai stupito dell'entusiasmo del cardinale, tentando inutilmente di metterlo in guardia circa la possibilità, invero assai remota, che il bandito sia lì per assassinarlo. Introduce poi l'innominato nella sala e, in seguito al colloquio tra i due, è richiamato dal Borromeo che gli chiede se tra i parroci riuniti lì vi sia anche quello del paese dei due promessi, ovvero don Abbondio, al che il cappellano risponde di sì. Gli viene ordinato di chiamare lui e il curato di quella parrocchia e il cappellano svolge l'ambasciata, suscitando la viva sorpresa di don Abbondio che esita non poco a seguirlo dal cardinale. Si occupa infine di fare sellare le due mule che dovranno portare don Abbondio e l'innominato al castello, per liberare Lucia, e di allestire la lettiga che dovrà portare la moglie del sarto e poi la stessa Lucia dopo la sua liberazione. Compare ancora nel cap. XXV, in occasione della visita del cardinale al paese di don Abbondio, durante la quale lo vediamo portare appunto la croce in processione, in sella a una mula; più avanti introduce dal prelato Agnese e Lucia, dopo aver dato loro istruzioni circa il modo in cui rivolgersi al cardinale (l'autore osserva con ironia che l'uomo si preoccupa eccessivamente del "poco ordine" che regna intorno al suo superiore e della troppa confidenza che alcuni usano con lui, approfittando della sua benevolenza). È presentato come un personaggio comico, goffo nel suo zelo esagerato e nei suoi timori riguardo al cardinale, facendo una sorta di contrappunto umoristico ai modi solenni e pieni di carità del suo superiore; rimane pieno di stupore di fronte alla conversione dell'innominato, comunicandola poi ai curati presenti con la frase biblica haec mutatio dexterae Excelsi ("questa conversione è opera della mano dell'Altissimo").
Compare nel cap. IV, durante il flashback che narra la gioventù di padre Cristoforo ed ha un ruolo decisivo nel determinare la decisione di Lodovico di farsi frate: è il fedele servitore del giovane, un tempo aiutante di bottega del padre e poi diventato maggiordomo della casa, affezionato a Lodovico che ha visto crescere. È descritto come un uomo di circa cinquant'anni, sposato e con otto figli a carico, il quale accompagna Lodovico nella passeggiata durante la quale avviene l'incontro col nobile con cui ci sarà poi il duello, causato da futili motivi di puntiglio cavalleresco. Nello scontro Cristoforo cerca di difendere il suo padrone e viene ferito mortalmente dal nobile, a sua volta poi ucciso da Lodovico. Questi decide in seguito di farsi frate e, per espiare il male commesso, sceglie come nome da religioso proprio quello di Cristoforo, che gli ricorderà sempre il sangue sparso a causa sua. Lodovico vende tutti i suoi beni e usa il ricavato per provvedere economicamente alla vedova e ai figli del defunto servitore, morto per colpa sua.
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
Don Abbondio è comunque una figura fondamentalmente positiva, sinceramente affezionato a Renzo e Lucia, anche se la sua paura e la sua debolezza lo spingono a comportarsi in modo scorretto e a farsi complice delle prepotenze altrui, al di là delle sue stesse intenzioni. Il suo nome rimanda a sant'Abbondio, patrono di Como, e suggerisce il carattere di un uomo che ama il quieto vivere. È indubbiamente uno dei personaggi comici del romanzo, protagonista di molti episodi che mescolano dramma e farsa (l'incontro con i bravi, il colloquio con Renzo, il "matrimonio a sorpresa", il viaggio in compagnia dell'innominato...).
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È il nobiluomo milanese che accoglie nella propria casa Lucia dopo la sua liberazione dal castello dell'innominato, in seguito alla conversione del bandito dopo il suo incontro col cardinal Borromeo: è introdotto nel cap. XXV, col dire che la moglie donna Prassede lo incarica di scrivere una lettera al cardinale per informarlo della decisione di ospitare la ragazza, compito che l'aristocratico svolge con la consueta maestria (egli è descritto fin dall'inizio come un uomo dotto e letterato, infatti nella lettera egli inserisce molti "fiori", ovvero sottigliezze retoriche da cui il Borromeo dovrà ricavare "il sugo"). Il casato del personaggio non viene nominato e tale omissione è come al solito imputata alla reticenza dell'anonimo, anche se il cardinale approva la decisione di mandare Lucia nella sua casa dove, è certo, sarà al sicuro dalle insidie di don Rodrigo, benché il prelato conosca donna Prassede per essere una persona non proprio adatta all'ufficio di proteggere la ragazza, per via del suo eccessivo zelo nei confronti del prossimo. Don Ferrante viene poi descritto nel cap. XXVII come un uomo che passa per essere molto dotto, anche se attraverso di lui l'autore svolge una sottile quanto corrosiva critica della cultura del Seicento, frivola e priva di profondi significati: in casa il nobile non vuole comandare né ubbidire, quindi si sottrae alla "tirannia" esercitata dalla moglie e la compiace solo quando si tratta di scrivere per lei una lettera indirizzata a un gran personaggio, per quanto anche in questo rifiuti talvolta di darle il suo aiuto. Possiede una biblioteca che conta circa trecento volumi (un numero considerevole per l'epoca) e nella quale l'uomo trascorre molto tempo sprofondato nelle sue letture, gloriandosi di essere esperto in vari campi del sapere: l'autore passa in rassegna le opere più significative di questa raccolta in cui emerge il carattere insulso della cultura dell'epoca, dal momento che don Ferrante risulta particolarmente versato nell'astrologia, nella filosofia antica (Aristotele è ovviamente la sua autorità indiscussa, per quanto sia presente fra gli scrittori anche il contemporaneo Cardano, autore di scarsissimo peso), nella naturalistica (grande spazio hanno i descrittori di mirabilia antichi e moderni), nella magia e nella stregoneria, nella storia, nella politica (qui viene esaltato Valeriano Castiglione, scrittore del XVII sec. di nessun valore) e soprattutto nella scienza cavalleresca, dove il personaggio viene considerato una specie di autorità (è evidente la polemica del Manzoni contro la concezione distorta dell'onore e della cavalleria, fonte di tanti soprusi e ingiustizie all'epoca del romanzo).
La sua morte per la peste viene narrata alla fine del cap. XXXVII e anche questa è un'occasione per mettere in ridicolo le sue presunte conoscenze "scientifiche" e il carattere insulso della filosofia dell'epoca, all'origine di tante errate credenze riguardanti la terribile epidemia: don Ferrante infatti nega risolutamente che il contagio possa propagarsi da un corpo all'altro e si esibisce in un complesso ragionamento che si appoggia sulla logica aristotelica (rigoroso in sé, ma che ovviamente non tiene conto delle cognizioni scientifiche e mediche inerenti al caso), quindi attribuisce la peste agli influssi astrali e in particolare alla congiunzione di Giove e Saturno, origine a suo dire dell'epidemia e contro la quale è perfettamente inutile prendere precauzioni come quelle prescritte dai medici, quali il bruciare i panni degli appestati e simili. Convinto di queste considerazioni, don Ferrante non prende alcuna misura per evitare il contagio e ovviamente si ammala di peste, andando a letto "a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle", mentre le sua "famosa libreria" è forse ancora "dispersa su per i muriccioli", ovvero è stata venduta sulle bancarelle dei libri usati.
Nel Fermo e Lucia il personaggio è inizialmente presentato come don Valeriano (III, 4), ricco gentiluomo milanese sposato con donna Margherita e con un'unica figlia, Ersilia, mentre in seguito (III, 9) il nome diventa quello poi definitivo di don Ferrante e la moglie sarà ugualmente ribattezzata donna Prassede. Nella prima stesura la presentazione della famiglia nobile e la descrizione della vita di Lucia nella loro casa di Milano sono assai più prolisse e ricche di personaggi secondari (il maggiordomo Prospero, la governante Ghita incaricata di sorvegliare Lucia...), parti poi eliminate nell'edizione finale dei Promessi sposi. Altrettanto curioso il fatto che inizialmente la "dotta" disputa sulla peste sia inclusa nella digressione storica sull'epidemia (IV, 3) e inserita in un dialogo con un signor Lucio, altro nobile ignorante e saccente che strepita contro i regolamenti del Tribunale di Sanità e contro la scienza medica (l'episodio verrà poi drasticamente ridotto e posto alla fine del cap. XXXVII, a margine del racconto della morte di don Ferrante).
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È il governatore dello Stato di Milano, carica che esercitò dal 1626 al 1629 durante il dominio spagnolo in Lombardia: personaggio storico (ca. 1590-1635), fu condottiero delle forze spagnole e si distinse in Fiandra e nel Palatinato, riportando la vittoria di Fleurus; combatté al fianco di Carlo Emanuele I di Savoia nella guerra di Mantova, cingendo d'assedio Casale per poi ritirarsi nel marzo 1629, in seguito all'intervento delle truppe francesi. Fu successivamente rimosso dalla carica di governatore e divenne ambasciatore a Parigi nel 1632, partecipando nuovamente alle guerre in Fiandra e nel Palatinato.
Nel romanzo non compare mai direttamente come personaggio, anche se è spesso citato quale governatore di Milano e occasionalmente è coinvolto nelle vicende di fantasia dei protagonisti: nel cap. XII l'autore ricostruisce le cause della carestia che affligge il Milanese e ricorda che don Gonzalo è impegnato nell'assedio di Casale del Monferrato, mentre il gran cancelliere Ferrer in sua assenza impone un calmiere sul prezzo del pane; il governatore nomina in seguito una giunta per decidere in merito alla questione e la revoca del calmiere stabilita da quest'ultima scatena di fatto il tumulto di S. Martino. L'assedio di Casale va per le lunghe e lo scrittore riferisce nel cap. XXVII che don Gonzalo si lamenta per il poco aiuto offerto dalla corte spagnola e per la condotta non limpida dell'alleato sabaudo, osservando con ironia che, secondo alcuni storici, le operazioni sono rallentate "per i molti spropositi che faceva". In seguito alla sommossa dell'11 novembre 1628 è costretto a rientrare precipitosamente a Milano e, in occasione di una visita ufficiale del residente di Venezia (la Repubblica era potenziale alleata dei Francesi) si lamenta del fatto che lo Stato vicino abbia offerto asilo a Renzo, fuggito in seguito ai disordini di S. Martino; la Repubblica svolge alcune indagini superficiali nel territorio di Bergamo che non danno alcun esito e quando viene riferita la risposta al governatore, tornato all'assedio di Casale, questi alza la testa "come un baco da seta che cerchi la foglia", si ricorda in modo fugace della questione sollevata a suo tempo e poi non ci pensa più (la vicenda è ovviamente invenzione del romanziere, ma serve a caratterizzare don Gonzalo come un politico superficiale e vanesio).
Viene citato occasionalmente quale autore di gride e provvedimenti per ribassare il prezzo del pane in seguito alla rivolta di novembre 1628 (cap. XXVIII), mentre viene ricordato che in seguito all'intervento delle truppe francesi è costretto a togliere l'assedio da Casale, nella primavera del 1629. L'eventualità sempre più concreta di un passaggio dei Lanzichenecchi in Lombardia per porre l'assedio a Mantova e, conseguentemente, il timore che ciò diffonda il contagio della peste, spingono il membro del Tribunale di Sanità Alessandro Tadino a rappresentare la cosa al governatore, il quale però sottovaluta il pericolo e risponde che "non sapeva che farci", poiché le ragioni per cui quell'esercito si è mosso sono di ordine superiore e, quindi, bisogna confidare nella Provvidenza divina. Poco dopo Gonzalo viene rimosso dalla carica di governatore per il cattivo esito della guerra da lui promossa e lascia Milano tra i fischi e le rimostranze del popolo, che lo accusa per la fame sofferta e gli imputa l'incuria dimostrata nel suo governo, senza contare la negligenza adoperata nel fronteggiare il rischio della peste; verrà sostituito dal genovese Ambrogio Spinola e in seguito (cap. XXXI) la voce popolare lo indicherà come il mandante degli untori durante la peste, quale vendetta "per gl'insulti ricevuti nella sua partenza".
Il personaggio viene spesso tratteggiato in maniera impietosa dall'autore, che lo rappresenta come un politico incompetente e ambizioso, interessato più alla gloria personale e alle vicende della guerra che non alla popolazione milanese affidata al suo governo, esponente di quegli uomini di Stato del tutto inadeguati al ruolo che ricoprono (esempio analogo è Antonio Ferrer, corresponsabile nella dissennata gestione della carestia del 1628).
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È il signorotto del paese di Renzo e Lucia, un aristocratico che vive di rendita e abita in un palazzotto situato a metà strada tra il paese stesso e Pescarenico: personaggio malvagio del romanzo, si incapriccia di Lucia e decide di sedurla in seguito a una scommessa fatta col cugino Attilio, per poi intestardirsi in questo infame proposito al fine di non sfigurare di fronte agli amici nobili e, quindi, per ragioni di puntiglio cavalleresco. A questo scopo manda due bravi a minacciare il curato don Abbondio perché non celebri il matrimonio fra i due promessi (cap. I), e in seguito tenta senza successo di far rapire la ragazza dalla sua casa (VIII); si rivolgerà poi all'innominato per ritentare l'impresa quando la giovane è protetta nel convento di Gertrude, a Monza, ma l'inattesa conversione del bandito manderà a monte i suoi progetti criminosi (XX ss.). Riesce a far allontanare padre Cristoforo da Pescarenico tramite l'intervento del conte zio, che esercita indebite pressioni politiche sul padre provinciale dei cappuccini, e in seguito allo scandalo suscitato dalla conversione dell'innominato lascia il paese per trasferirsi a Milano, dove si ammala di peste e viene ricoverato al lazzaretto. Qui morirà, lasciandoci nel dubbio se si sia ravveduto o meno dei peccati commessi (ottiene comunque il perdono di Renzo, cui il nobile agonizzante viene mostrato da padre Cristoforo).
Viene presentato come un uomo relativamente giovane, con meno di quarant'anni (ci viene detto nel cap. VI, quando è presentato il servitore che informerà padre Cristoforo del progettato rapimento di Lucia) e di lui non c'è una vera e propria descrizione fisica; appartiene a una famiglia di antico blasone, come dimostra l'appartenenza ad essa del conte zio, membro del Consiglio Segreto e politico influente, anche se il nome del casato non viene mai fatto. Non sappiamo molto del suo passato, salvo il fatto che il padre era uomo di tempra ben diversa e Rodrigo, rimasto erede del suo patrimonio, si è dimostrato figlio degenere. Alla fine della vicenda verrà introdotto il suo erede, un marchese che entra in possesso di tutti i suoi beni e che, su suggerimento di don Abbondio, acquisterà le terre di Renzo e Agnese a un prezzo molto alto, per risarcirli dei danni subìti e consentir loro di trasferirsi nel Bergamasco; in seguito fa anche in modo che la cattura che pesa su Renzo venga annullata, dimostrando quindi di essere un galantuomo ben diverso dal suo defunto parente.
Don Rodrigo è ovviamente un malvagio, ma mediocre e di mezza tacca, come più volte è evidenziato nel romanzo: la sua persecuzione ai danni di Lucia non nasce da un'ossessione amorosa, ma è più un atto di prepotenza sessuale di un nobile su una povera contadina, oltretutto a causa di una sciocca scommessa fatta col cugino; egli è il rappresentante di quella aristocrazia oziosa e improduttiva che Manzoni critica spesso e che esercita soprusi sui deboli più per passatempo che per crudeltà gratuita. Compare per la prima volta direttamente solo nel cap. V, dopo che il suo nome è stato più volte evocato e sempre associato a un'aura di terrore, mentre alla sua apparizione il personaggio risulterà assai deludente. Don Rodrigo si mostra timoroso della giustizia e delle leggi, il che lo porta a cercare l'appoggio e la complicità di importanti magistrati come il podestà di Lecco, o di legali come il dottor Azzecca-garbugli, mentre nutre un sincero terrore per tutto ciò che riguarda la religione e l'aldilà, come è evidente nel colloquio con padre Cristoforo nel cap. VI (la frase "Verrà un giorno..." pronunciata dal cappuccino col dito puntato scatena la sua ira e tale gesto ricorrerà nel sogno del cap. XXXIII, quando il nobile si scoprirà ammalato di peste). La piccolezza morale del personaggio è sottolineata nella scena del cap. XI, quando il signorotto attende con impazienza il ritorno dei bravi inviati a rapire Lucia e pensa tra sé alle possibili conseguenze di quell'atto scellerato (soprattutto, pensa alla protezione che l'amico podestà e il nome della famiglia potranno assicurargli) e la sua grettezza emergerà poi nel confronto con l'innominato, personaggio che dimostra una notevole statura morale tanto nella malvagità quanto nel successivo ravvedimento (per approfondire: L. Russo, Don Rodrigo uomo senza originalità e grandezza).
Nel Fermo e Lucia la fine del personaggio era decisamente diversa, poiché Rodrigo (moribondo per la peste e in preda al delirio) balzava su un cavallo dopo aver visto Lucia e lo spronava al galoppo, cadendo rovinosamente e morendo così sicuramente in disgrazia (nei Promessi Sposi, invece, la notizia della sua morte giunge al paese solo nel cap. XXXVIII; si veda il brano La morte di don Rodrigo).
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È la nobildonna milanese moglie di don Ferrante che accoglie nella propria casa Lucia dopo la sua liberazione dal castello dell'innominato, in seguito alla conversione del bandito dopo il suo incontro col cardinal Borromeo: è introdotta nel cap. XXV, quando ci viene detto che lei e il marito soggiornano in un paesetto vicino a quello dove Lucia e la madre Agnese sono ospiti in casa del sarto, proprio nei giorni successivi alla liberazione della ragazza. Il casato cui appartiene la nobildonna non viene citato (col consueto espediente della reticenza dell'anonimo) e l'autore la presenta come una persona estremamente bigotta, convinta di dover fare del bene al prossimo ma per puntiglio personale e senza una vera inclinazione caritatevole, per cui molto spesso si intestardisce a voler intervenire in faccende che non la riguardano, usa mezzi che non sono opportuni o leciti e talvolta impone le sue decisioni a persone che non lo richiedono e che ne farebbero volentieri a meno (la sua figura risulta a tratti decisamente grottesca). Il caso di Lucia ha destato molto interesse nei dintorni e donna Prassede esprime il desiderio di conoscere la giovane, per cui un giorno manda una carrozza a casa del sarto per condurla alla propria casa di villeggiatura: Lucia vorrebbe schermirsi, ma il sarto convince lei e la madre ad accettare l'invito e così le due donne fanno la conoscenza della nobildonna, che propone a Lucia di venire ad abitare nella sua casa di Milano dove potrà aiutare la servitù nelle faccende domestiche e sarà al sicuro dalle mire di don Rodrigo, assecondando così i desideri del cardinale che sta cercando un rifugio per la ragazza. Lucia e Agnese decidono a malincuore di accettare e così Lucia si separa dalla madre per trasferirsi a Milano (cap. XXVI), dove resterà sino allo scoppio della peste del 1630 (Renzo andrà a cercarla proprio nella casa della nobildonna, venendo a sapere che la giovane si è ammalata ed è stata condotta al lazzaretto).
La permanenza di Lucia nella casa aristocratica non è tuttavia delle più felici, poiché sin dal loro primo incontro donna Prassede si è convinta che la ragazza si sia incamminata su una brutta strada, dal momento che si è promessa al famigerato Renzo Tramaglino e dunque a un giovane ricercato dalla legge: la nobile non perde dunque occasione per cercare di far dimenticare alla ragazza quel partito così sconveniente (cap. XXVII), ottenendo il risultato paradossale di suscitare ancor più in lei il ricordo e la nostalgia del suo promesso lontano a dispetto del voto pronunciato in precedenza (per fortuna, osserva con amara ironia l'autore, la nobildonna deve fare del "bene" anche ad altre persone, quindi talvolta cessa di tormentare Lucia). L'autore ci informa che donna Prassede ha cinque figlie, di cui tre sono monache e due sposate, per cui la nobile si sente in dovere di dettar legge e intromettersi nelle faccende di tre monasteri e due famiglie, anche se qui ovviamente trova la ferma opposizione delle rispettive badesse, nonché dei generi e dei loro parenti. La sua autorità si estende illimitata nella propria casa (specie sulla servitù, formata da "cervelli" bisognosi "d'esser raddrizzati e guidati"), anche se qui donna Prassede deve scendere a patti col marito don Ferrante, il quale compiace talvolta la moglie quando si tratta di scrivere a suo nome una lettera indirizzata a un personaggio d'importanza, ma per il resto non vuole comandare né ubbidire ed è spesso tacciato da lei di essere uno "schivafatiche" e un "letterato", titolo in cui la donna mescola un atteggiamento stizzito e un po' d'orgoglio per la fama del marito. La sua morte per la peste ci viene riferita alla fine del cap. XXXVII, con l'osservazione amaramente ironica che "quando si dice ch'era morta, è detto tutto" (l'autore congeda in modo sbrigativo il suo personaggio, intento a fare il bene per capriccio personale e non certo per carità cristiana, quindi la sua scomparsa avviene senza quasi che nessuno provi pena per lei).
Nel Fermo e Lucia (III, 4) il personaggio viene dapprima presentato col nome di donna Margherita, per poi diventare in seguito donna Prassede (III, 9) mentre Margherita (Ghita) sarà la governante della casa di Milano.
È il giovane scapestrato che vive a Monza in una casa attigua al convento di Gertrude, dedito a varie azioni criminali grazie anche all'appoggio di amici potenti e che intreccia con la monaca una torbida relazione clandestina: viene introdotto nel cap. X, quando vede la giovane suora che passeggia in un cortile interno del chiostro e, allettato anziché intimorito dalla malvagità dell'impresa, ha il coraggio di rivolgerle il discorso. In seguito l'autore ci fa capire, in termini molto reticenti, che i due uccidono una conversa che aveva scoperto la tresca amorosa e ne seppelliscono il corpo nel convento facendo credere che sia fuggita attraverso una breccia nel muro dell'orto (il fatto era narrato con maggiori particolari, anche macabri, nel Fermo e Lucia: cfr. i brani Geltrude ed Egidio, L'uccisione della suora). Nel cap. XX apprendiamo che Egidio è compagno di scelleratezze dell'innominato, che si rivolge a lui per sapere come realizzare il rapimento di Lucia dopo che ha ricevuto l'infame incarico da don Rodrigo: il giovinastro chiede a Gertrude di fare uscire con un pretesto la giovane dal monastero e la monaca, pur riluttante e inorridita da tale richiesta, accetta di compiacerlo. Un suo sgherro segue Lucia dalla casa del suo padrone, dopo che la giovane è uscita dal monastero, precedendola sulla via dove poi finge di chiederle la strada per Monza per consentire ai bravi dell'innominato di rapirla. In seguito Egidio non viene più nominato, neppure quando (nel cap. XXVII) la mercantessa spiega a Lucia che i delitti di Gertrude sono stati scoperti e che la monaca è stata imprigionata.
La sua figura è chiaramente ispirata a quella di Gian Paolo Osio (m. nel 1608), giovane scellerato e assassino che ebbe una relazione con suor Virginia Maria de Leyva (la Gertrude del romanzo) e dalla quale ebbe due figli, prima di farla complice di alcuni delitti: venne condannato a morte e riuscì a sfuggire alla giustizia, per poi finire ucciso in casa di un amico in circostanze poco chiare. Nel romanzo ha un ruolo chiave ma poco sviluppato dal punto di vista narrativo, dal momento che non pronuncia direttamente neppure una battuta e i suoi dialoghi con Gertrude vengono sommariamente riassunti dall'autore, in coerenza col principio di evitare una rappresentazione troppo viva e realistica delle vicende scabrose; non così era nel Fermo e Lucia, in cui la relazione tra lui e la monaca veniva descritta con più ampi dettagli (anche riproducendo i dialoghi dei due amanti) e la tresca vedeva coinvolte anche altre due suore descritte come complici della relazione, nonché dell'assassinio di una terza suora che aveva scoperto il segreto e minacciava di rivelarlo (il delitto veniva materialmente compiuto da una delle due, su ispirazione di Egidio). In seguito Egidio convinceva Gertrude a far cadere Lucia nella trappola, promettendo di sbarazzarsi del cadavere della donna uccisa che lui aveva seppellito in una cantina della sua casa, cosa che turbava oltremodo la "Signora" (il tutto era narrato con uno stile molto vicino al romanzo "nero" e d'appendice diffuso nella letteratura europea del primo Ottocento).
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È il cardinale arcivescovo di Milano che raccoglie la confessione dell'innominato e ne favorisce la clamorosa conversione, consentendo in tal modo la liberazione di Lucia prigioniera nel castello del bandito e una positiva svolta nella vicenda dei due promessi: la sua figura è dichiaratamente ispirata al personaggio storico di Federigo Borromeo (1564-1631), il patriarca milanese cugino di S. Carlo e venerato nel XVII secolo come un santo egli stesso, di cui Manzoni traccia una biografia nel cap. XXII che a molti interpreti è sembrata una pagina di forte sapore agiografico (è innegabile che il romanziere ne offra un ritratto positivo in cui prevalgono le luci, per quanto le ombre non vengano del tutto sottaciute). Divenuto sacerdote nel 1580, il Borromeo fu creato cardinale a Roma nel 1587 e usò i larghi proventi della sua casata per opere di elemosina, fino a diventare arcivescovo di Milano dove, peraltro, poté recarsi solo nel 1623 a causa dell'ostilità della Spagna. Difese il rito ambrosiano e promosse la riforma del Conclave, mentre coltivò vari interessi culturali e produsse molti scritti, nessuno dei quali significativo (la sua creazione più importante fu la Biblioteca Ambrosiana, con l'annessa Pinacoteca). Durante la peste del 1630 si segnalò per il suo zelo in favore dei malati, anche se credette agli untori e promosse alcuni processi per stregoneria, fatti che contribuiscono a macchiare almeno in parte la sua biografia (la sua figura è stata recentemente oggetto di nuovi studi storici).
Il personaggio è introdotto per la prima volta nel cap. XXII, quando il cardinale giunge in visita pastorale al paese presso il quale si trova il castello dell'innominato: il bandito, che ha trascorso una notte in preda alla disperazione e ai rimorsi per il male commesso (Lucia è sua prigioniera dopo che l'ha fatta rapire dal convento di Monza), sente uno scampanio e vede molti paesani che corrono per vedere il prelato, al che è preso dal fortissimo desiderio di incontrarlo. Si reca da solo a fargli visita e, dopo un intenso colloquio in cui emerge il sincero pentimento del bandito, quest'ultimo si converte ed esprime il proponimento di liberare Lucia: il cardinale fa chiamare don Abbondio, lì presente insieme a molti altri curati delle terre vicine, e lo incarica di recarsi al castello in compagnia della moglie del sarto del paese per portare via Lucia (XXIII). Nel frattempo dispone che Agnese venga condotta lì e fa in modo che le due donne possano riabbracciarsi, per poi incontrarle e raccogliere sia le lagnanze di Agnese contro don Abbondio, sia la confessione di Lucia circa il tentativo del "matrimonio a sorpresa", interessandosi anche alla sorte di Renzo che, in seguito al tumulto di S. Martino, è ricercato dalla giustizia (XXIV). In seguito si reca in visita al paese delle due donne poco prima che queste rientrino (XXV) e in tale occasione rivolge i suoi rimproveri a don Abbondio per la sua viltà, suscitando in lui un momentaneo pentimento (XXV-XXVI). Dà un parere favorevole alla proposta avanzata da donna Prassede e don Ferrante di ospitare Lucia nella loro casa a Milano, dove potrà trovare protezione da don Rodrigo, infine riceve tramite il curato del paese vicino al castello dell'innominato una lettera di quest'ultimo e cento scudi d'oro, che costituiscono una sorta di risarcimento ad Agnese e Lucia (il cardinale consegna immediatamente il denaro alla madre della giovane).
In seguito viene citato nel cap. XXVIII per sottolineare la sua opera instancabile a favore degli affamati durante la terribile carestia del 1628-1629, e nei capp. XXXI-XXXII in cui si parla del suo impegno per la cura degli ammalati in occasione dell'epidemia di peste del 1630: qui il romanziere non lesina elogi per l'assistenza caritatevole offerta dal prelato ai ricoverati nel lazzaretto, anche profondendo parte delle sue rendite personali, ma non tace il fatto che il cardinale credette alle dicerie sugli untori, tanto da scrivere un'operetta sulla peste (conservata nella Biblioteca Ambrosiana da lui fondata) in cui la loro azione non veniva né confutata né confermata. È anche per questo motivo che Borromeo si oppone inizialmente alla processione solenne con il corpo di S. Carlo chiesta dalle autorità cittadine per placare il contagio, dal momento che un simile concorso di folla darebbe troppe occasioni ai presunti untori di spargere i loro veleni; alla fine acconsente alla cerimonia, che si svolge l'11 giugno 1630 e che ha come unico risultato il propagarsi ancor più rapido della pestilenza, col crescere dei decessi fin dal giorno seguente (la cosa viene attribuita all'opera degli untori e non, com'è ovvio, alla concentrazione della folla per le strade e al moltiplicarsi dei contatti). Il cardinale si spende d'altra parte senza timori per il soccorso degli appestati e non esita, di quando in quando, a visitarli personalmente al lazzaretto, mostrando un coraggio che è testimoniato da tanti scritti di storici contemporanei: "Si cacciò insomma e visse nel mezzo della pestilenza, maravigliato anche lui alla fine, d'esserne uscito illeso". Viene citato ancora nel cap. XXXVII, quando la mercantessa informa Lucia che Gertrude è stata imprigionata in seguito ai suoi delitti proprio per ordine del cardinal Federigo (il fatto corrisponde alla verità storica, poiché il prelato scoprì la tresca della monaca di Monza e la fece internare in un convento di Milano, dove questa si ravvide fino a morire in odore di santità).
Federigo Borromeo rappresenta nel romanzo l'unica eccezione fra tanti personaggi potenti i quali, per malvagità, incuria o incompetenza, si macchiano di gravi colpe, oltre ad essere praticamente l'unico esponente dell'alto clero a comportarsi in modo schietto e a non compromettersi col potere politico e aristocratico (è dunque una figura ben diversa dalla badessa del convento di Monza che compiace i disegni perversi del principe padre di Gertrude, e del padre provinciale dei cappuccini che accetta di trasferire padre Cristoforo da Pescarenico).
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È un cercatore laico dei cappuccini, che vive al convento di Pescarenico dove risiede anche il padre Cristoforo: uomo semplice e dotato di fede candida e ingenua, è un personaggio secondario che compare in due importanti episodi del romanzo, in entrambi i quali protagonista è Agnese. Nel primo (cap. III) il frate bussa alla porta della casa di Agnese e Lucia, chiedendo l'elemosina delle noci, al che la donna ordina alla figlia di portarle a Galdino: nell'attesa l'uomo racconta il "miracolo delle noci", intermezzo narrativo e apologo edificante sul valore della carità che contiene involontari riferimenti al personaggio di don Rodrigo. Al suo ritorno Lucia consegna al frate una quantità ingente di noci (attirando la collera di Agnese in quanto l'annata è scarsa), per poi chiedere a Galdino di pregare il padre Cristoforo di venire da loro prima possibile. In seguito la giovane spiega alla madre che, se il cercatore avesse dovuto proseguire la questua anziché tornare subito in convento, avrebbe perso tempo e si sarebbe probabilmente dimenticato di avvertire Cristoforo, per cui Agnese approva (seppur a malincuore) la sua scelta. Nel secondo episodio (XVIII), Agnese si reca al convento di Pescarenico per conferire col padre Cristoforo dopo aver appreso a Monza che Renzo è rimasto coinvolto nei tumulti di Milano ed è fuggito a Bergamo, ma alla porta trova fra Galdino che la informa che Cristoforo è partito per Rimini, su ordine del padre provinciale dei cappuccini: la donna è costernata e Galdino, con la sua schietta semplicità, si compiace del fatto che il padre sia stato inviato come predicatore in una città lontana, poiché i frati cappuccini sono famosi in tutto il mondo per le loro abilità oratorie. Le propone di rivolgersi ad altri padri del convento per un parere, nessuno dei quali naturalmente può soddisfare Agnese che ha fiducia solo in Cristoforo, per cui la donna è costretta a tornarsene sconsolata al paese. Curioso è il fatto che fra Galdino citi la Romagna in entrambi gli episodi in cui compare: lì sorgeva il convento di padre Macario, protagonista del "miracolo delle noci", e sempre in quella regione (cioè a Rimini) viene trasferito padre Cristoforo su ordine del padre provinciale.
Altra curiosità sta nel fatto che nel Fermo e Lucia il personaggio veniva chiamato fra Canziano (III, 3), mentre il nome di padre Galdino era inizialmente attribuito al personaggio di padre Cristoforo.
Compare nel cap. VIII ed è il laico sagrestano del convento dei cappuccini di Pescarenico: al momento in cui Renzo, Agnese e Lucia giungono al monastero dove li attende padre Cristoforo oppone delle resistenze a far entrare nel convento delle donne, per giunta di notte, ma il padre tronca ogni discussione dicendo "Omnia munda mundis" (tutto è puro per chi è puro), frase che Fazio non intende in quanto non capisce il latino. Fra Cristoforo osserva tra sé che "se fosse un masnadiero inseguito, fra Fazio non gli farebbe una difficoltà al mondo; e una povera innocente, che scappa dagli artigli del lupo...", alludendo alla diffusa pratica di dare asilo nei conventi ai ricercati dalla giustizia.
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È la monaca del convento di Monza dove si rifugiano Agnese e Lucia in seguito alla fuga dal paese e al fallito tentativo di rapire la giovane da parte di don Rodrigo: detta anche la "Signora", viene introdotta nel cap. IX ed è presentata come la figlia di un ricco ed influente principe di Milano, la quale grazie alle sue nobili origini gode di grande prestigio e di una certa libertà all'interno del convento (è il padre guardiano del convento dei cappuccini di Monza, cui le due donne si sono rivolte su suggerimento di padre Cristoforo, a condurre Agnese e Lucia da lei e a ottenere per loro la protezione della "Signora"). Il personaggio è chiaramente ispirato alla figura storica di Marianna de Leyva (1575-1650), figlia di Martino conte di Monza e costretta a farsi monaca dal padre contro la sua volontà: entrata in convento tra le umiliate col nome di suor Virginia Maria (1591), esercitò in seguito l'autorità feudale come contessa di Monza e fu perciò chiamata la "Signora", mentre negli anni seguenti intrecciò una relazione con Gian Paolo Osio (l'Egidio del romanzo), un giovane scapestrato già colpevole di assassinio dal quale ebbe due figli (nel 1602 e 1603). Per tenere segreta la relazione l'Osio si macchiò di tre nuovi delitti, ma venne arrestato e ciò permise al cardinal Borromeo di scoprire la tresca, che fu confermata dalla stessa De Leyva. L'Osio fu condannato a morte in contumacia (1608) e venne poi ucciso in casa di un presunto amico che lo tradì, mentre la donna subì un processo canonico (1607) e venne rinchiusa nella casa delle penitenti in Santa Valeria a Milano, dove visse gli ultimi anni espiando le sue colpe e auto-infliggendosi crudeli penitenze, fino a morire in odore di santità.
Manzoni modifica in parte la vicenda storica e la adatta alle esigenze narrative del romanzo, anche se rivela fin dall'inizio la storicità del personaggio: la Gertrude dei Promessi sposi è detta figlia di un gentiluomo milanese il cui casato non è dichiarato in modo esplicito, anche se la città dove sorge il convento è Monza (ciò in contrasto con la "circospezione" dell'anonimo, il quale nella finzione indica il luogo con i consueti asterischi). È presentata come una giovane di circa venticinque anni, dalla bellezza sfiorita e dal cui aspetto traspare qualcosa di torbido e di morboso, unitamente al fatto che il suo abbigliamento non si conforma perfettamente alla regola monastica (la tonaca è attillata in vita come un vestito laico e la donna porta i capelli neri ancora lunghi sotto il velo, mentre dovrebbe in realtà averli corti). Il padre guardiano dei cappuccini presenta Agnese e Lucia alla monaca (IX), la quale accetta di ospitare nel convento la ragazza e la madre, che alloggeranno nella stanza lasciata libera dalla figlia maritata della fattoressa e svolgeranno i servizi di cui si occupava la ragazza; in seguito si apparta con Lucia e mostra una curiosità morbosa per la sua vicenda, obbligandola a rivelare più precisi dettagli sulla persecuzione subìta da don Rodrigo e sul suo rapporto con Renzo. L'eccessiva libertà con cui Gertrude parla alla giovane suscita il suo stupore e Agnese, alla quale Lucia confiderà in seguito la sua perplessità, concluderà col suo buon senso di popolana che i nobili "hanno tutti un po' del matto" (X), invitando la figlia a non dare troppo peso alla cosa.
La storia passata di Gertrude è narrata dall'autore con un ampio flashback, che occupa gran parte dei capp. IX-X e descrive la sua vicenda come esemplare dei soprusi che spesso nelle famiglie aristocratiche venivano esercitati sui membri più deboli: il principe padre di Gertrude, nobile milanese e feudatario di Monza, aveva deciso il destino della figlia prima ancora che nascesse, ovvero aveva stabilito che si facesse monaca per non intaccare il patrimonio di famiglia, destinato interamente al primogenito. Dunque la piccola Gertrude viene educata fin da bambina inculcandole nella testa l'idea del chiostro (le vengono regalate bambole vestite da monaca, viene spesso paragonata a una "madre badessa"...), finché a sei anni viene mandata in convento per essere educata come molte sue coetanee. All'inizio la ragazza è allettata all'idea di diventare un giorno la madre superiora del monastero, ma nell'adolescenza inizia a rendersi conto che non è quella la vita che si attende e, soprattutto, che vorrebbe anche lei sposarsi e avere un'esistenza nel mondo come tutte le sue compagne. Decide allora di scrivere una lettera al padre, per comunicargli di non voler dare il suo assenso alla monacazione, ma quando rientra a casa per trascorrere un periodo di un mese fuori dal convento (come prescritto dalla regola canonica per le monacande), è accolta con freddezza da tutti i suoi familiari e posta in una sorta di isolamento che ha il fine di forzarla ad accettare di prendere il velo. La giovane Gertrude un giorno scrive un biglietto per un paggio verso cui nutre un'innocente passione, ma la carta viene intercettata da una cameriera e finisce nelle mani del padre, il quale è abile nel servirsi di questo "fallo" della ragazza per farla sentire terribilmente in colpa e forzarla a dare il suo assenso, cosa che la poverina è indotta a fare per debolezza, senso di colpa, sottomissione all'autorità del padre. Da quel momento Gertrude è indotta in ogni modo dalla famiglia ad affrettare i passi che la condurranno alla monacazione, supera il colloquio col vicario delle monache che deve esaminarla per accertare la sincerità della sua vocazione e, alla fine, prende il velo iniziando il suo noviziato nello stesso convento in cui era stata educata, godendo di ampi privilegi e venendo trattata con rispetto e considerazione come se fosse lei la badessa (carica che non può ancora esercitare per la sua giovane età).
In seguito Gertrude diventa la maestra delle educande e sfoga su queste ragazze il malanimo e l'insofferenza per il destino che le è stato imposto, tiranneggiandole e diventando talvolta la loro confidente e la complice delle loro beffe; nei confronti delle altre monache prova un profondo astio, specie per quelle che a suo tempo sono state complici del padre nel costringerla ad accettare il velo. Gertrude vive in un quartiere isolato del chiostro e questo è contiguo ad una casa laica, dove vive un giovane scapestrato di nome Egidio: questi un giorno osa rivolgere il discorso alla monaca e Gertrude risponde, iniziando in seguito con lui una torbida relazione sessuale che l'autore riassume in modo molto sintetico, accennando per sommi capi anche alla sparizione di una conversa che aveva scoperto il suo segreto e che, verosimilmente, è stata assassinata da Egidio con la complicità di Gertrude (l'episodio era invece narrato con abbondanza di particolari nel Fermo e Lucia: cfr. i brani Geltrude ed Egidio, L'uccisione della suora). Quando Lucia e Agnese entrano nel convento è trascorso circa un anno da questo avvenimento, e in seguito Gertrude sembra affezionarsi sinceramente alla giovane e prendersi a cuore il suo caso, offrendo dunque una protezione sicura dalla persecuzione di don Rodrigo. Il signorotto riesce tuttavia a scoprire il nascondiglio della ragazza (XVIII) e in seguito chiede l'intervento dell'innominato (XX), il quale si rivolge a sua volta proprio a Egidio che è suo compagno di scelleratezze: questi induce Gertrude a fare uscire Lucia dal convento con un pretesto, affinché i bravi dell'innominato possano rapirla e condurla al castello del potente bandito, e la monaca obbedisce anche se la proposta le sembra spaventosa e l'idea di causare danni alla ragazza le riesce intollerabile. In seguito (XXXVII) Lucia apprenderà dalla mercantessa più precisi dettagli sulla storia di Gertrude, in particolare saprà che la donna è stata accusata di atroci delitti e rinchiusa su ordine del cardinal Borromeo in un monastero a Milano, dove conduce una vita di volontari patimenti e sofferenze rispetto alla quale solo la morte potrebbe essere peggiore.
Manzoni tratteggia una figura tragicamente solenne e fa di Gertrude uno dei personaggi più affascinanti del romanzo, specie nel racconto dettagliato della sua storia precedente la monacazione in cui dà prova di grande finezza e introspezione psicologica, mentre nella vicenda della relazione con Egidio e del delitto della conversa il racconto è decisamente più reticente, in accordo alla poetica dell'autore che non vuole rappresentare il male in modo diretto o in modi che possano risultare affascinanti e seducenti per il lettore (celeberrima, sotto questo aspetto, la frase con cui è spiegato l'inizio della relazione con Egidio: "Costui... un giorno osò rivolgerle il discorso. La sventurata rispose"). La vicenda di Gertrude è anche esemplare del male insito nel mondo del potere e nella stessa condizione nobiliare, poiché l'imposizione del padre nasce da motivi che riguardano il decoro aristocratico e la necessità di lasciare intatto il patrimonio, mentre alla fine Gertrude è indotta ad accettare il velo pur di non perdere quegli stessi privilegi nobiliari a cui è in fondo attaccata (il rifiuto comporterebbe il ripudio da parte della famiglia e, dunque, l'ingresso in una condizione sociale inferiore, per cui la giovane avrebbe la possibilità di sottrarsi al suo destino ma vi si abbandona perché non ha la forza di ribellarsi alle convenzioni della sua classe sociale).
È il fratello di Tonio, l'amico cui Renzo si rivolge perché lo aiuti nel "matrimonio a sorpresa": è un po' tardo di mente e vive col fratello nella stessa casa, in cui giunge Renzo (cap. VI) per invitare Tonio all'osteria. Viene proposto come secondo testimone di nozze dallo stesso Tonio e la sera seguente (VII) cena con quest'ultimo e Renzo all'osteria del paese, dove i tre sono sorvegliati dai bravi di don Rodrigo e dove lui a un certo punto parla a sproposito a voce alta, venendo subito redarguito dal fratello. Si reca poi insieme agli altri alla casa di don Abbondio, dove prende parte alla messinscena (VIII): dopo che lo stratagemma è fallito e che la stanza è diventata buia per la caduta del lume, grida e saltella come uno "spiritato" cercando l'uscita, poi se ne va velocemente insieme a Tonio. Nei giorni seguenti è minacciato dal fratello affinché non dica nulla dell'accaduto, ma l'uomo è così eccitato all'idea di potersi vantare di aver preso parte a quell'impresa che non può trattenersi dal rivelare qualche cosa (XI). Non viene detto dall'autore cosa ne sia di lui durante la peste, né viene più nominato (tranne nel cap. XXXIII, quando Renzo, tornato in paese dal Bergamasco, scambia un inebetito Tonio col fratello).
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
I bravi nel romanzo sono anzitutto gli sgherri al servizio di don Rodrigo, capeggiati dal Griso: due di loro minacciano don Abbondio all'inizio, altri accolgono padre Cristoforo quando si reca al palazzo del loro padrone (V), altri ancora sono in paese la notte del "matrimonio a sorpresa" (VII) e poi partecipano al tentato rapimento di Lucia (VIII). Il mattino seguente alla "notte degli imbrogli" due bravi sono mandati dal Griso a minacciare il console del paese e l'autore lascia intendere che potrebbero essere gli stessi che, giorni prima, hanno intimidito don Abbondio. Alcuni di loro vengono nominati, come il Grignapoco che partecipa alla spedizione notturna e lo Sfregiato e il Tiradritto che dovranno accompagnare il Griso a Monza (XI), mentre quando don Rodrigo si reca al castello dell'innominato (XX) lo accompagnano quattro sgherri tra cui il Tiradritto, il Montanarolo, il Tanabuso e lo Squinternotto (si tratta evidentemente di nomi di battaglia, su cui il Manzoni ironizza definendoli "bei nomi, da serbarceli con tanta cura"). Nel capitolo XXXIII il signorotto invoca l'aiuto di Biondino e Carlotto, due bravi che il Griso ha allontanato con falsi ordini per consegnare il padrone ammalato di peste ai monatti.
Anche Lodovico in gioventù, prima di convertirsi e diventare fra Cristoforo, si circonda di bravacci nel tentativo di farsi difensore dei deboli e degli oppressi, e questi prendono parte alla rissa (IV) durante la quale viene ucciso il servitore di Lodovico e quest'ultimo uccide il signore che l'aveva provocato.
Un piccolo esercito di bravi, capeggiati dal Nibbio, circonda infine l'innominato, il quale affida al suo luogotenente e a due suoi uomini l'infame incarico di rapire Lucia (XX): alcuni di loro restano col padrone dopo la sua clamorosa conversione e contribuiscono a difendere il castello durante la calata dei lanzichenecchi (XXX), mentre la gran parte degli altri lasciano la sua dimora e si accasano presso altri padroni.
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
Erano gli addetti che durante l'epidemia di peste a Milano nel 1630 avevano il compito di raccogliere i cadaveri dalle strade o dalle case e portarli alle fosse comuni, oppure di trasportare i malati al lazzaretto e di bruciare panni e cenci infetti: storicamente i monatti furono al servizio del Tribunale di Sanità e venivano reclutati fra uomini che non avevano molto da temere dal contagio, o perché già colpiti dal morbo e perciò immuni, o più spesso in quanto si trattava di criminali di pochi scrupoli, attratti dal salario e dalla prospettiva di arricchirsi depredando i morti e i malati. Vengono citati nel cap. XXXII dedicato alla peste e l'autore propone varie etimologie del loro nome, nessuna davvero convincente (dal greco monos, secondo la congettura del Ripamonti, dal latino monere, oppure come storpiatura del tedesco monathlich, "mensuale", con allusione al fatto che essi venivano reclutati mese per mese); è più probabile che il termine derivi dal milanese monàt, "monaco", come alterazione del significato originario nel senso di "affossatore", "becchino" (la questione è tuttora aperta). A Milano i monatti indossavano vistosi abiti rossi che li rendevano immediatamente riconoscibili e portavano al piede un campanello che segnalava la loro presenza, essendo tra l'altro sottoposti al rigido controllo dei commissari di Sanità e dei nobili durante l'esercizio dei loro compiti. Tuttavia l'infuriare del contagio e il numero sempre crescente di malati e di morti accrebbe la loro importanza e, venendo meno chi potesse sorvegliarli, a un certo punto diventarono i padroni delle strade, approfittando del loro ruolo per arricchirsi senza scrupoli: l'autore ricorda che essi depredavano le case dei malati, estorcevano denaro ai sani per non condurli al lazzaretto, arrivavano al punto di diffondere ad arte il contagio per prolungare l'epidemia in quanto loro fonte di guadagno, circondandosi in tal modo di una fama atroce e sinistra. Coerente con tale presentazione è la loro prima diretta apparizione nel cap. XXXIII, quando due di loro vanno a casa di don Rodrigo ammalato di peste per derubarlo e portarlo al lazzaretto, d'accordo col Griso che lo ha tradito: vengono descritti come "due logori e sudici vestiti rossi, due facce scomunicate" e si dimostrano lesti a gettarsi sul nobile che ha afferrato una pistola e a disarmarlo; mentre uno lo tiene fermo, l'altro collabora col Griso a scassinare uno scrigno contenente del denaro, quindi i due monatti caricano don Rodrigo esanime su una barella e lo portano via di peso.
Anche Renzo incontra varie figure di monatti quando attraversa la città sconvolta dalla peste, per recarsi a casa di don Ferrante dove spera di trovare Lucia (XXXIV): in una strada vede quattro grandi carri con i monatti che si affaccendano tutt'intorno, portando cadaveri fuori dalle case e caricandoli sui carri, alcuni con la divisa rossa e altri che indossano pennacchi multicolori come in segno di scherno nel lutto della pestilenza; poco oltre assiste al commovente episodio della madre di Cecilia, una bimba morta di peste che la donna consegna a un "turpe monatto" dandogli del denaro perché deponga il piccolo corpo nella fossa senza spogliarlo, cosa che l'uomo promette di fare colto da una singolare commozione; più avanti vede un gruppo di malati condotti al lazzaretto tra spinte e insulti e chiede a uno dei monatti indicazioni per raggiungere la casa di don Ferrante, sentendosi rispondere in malo modo. Quando ha finalmente raggiunto l'abitazione del gentiluomo viene scambiato per un untore e si salva dal furore della folla saltando su un carro di cadaveri, dove i monatti sono ben lieti di offrirgli protezione: gli dicono con ironia che sotto la loro tutela è sicuro come "in chiesa", quindi uno di loro afferra un cencio da uno dei cadaveri e fa il gesto di scagliarlo sulla folla, che si disperde in tutta fretta per l'orrore. In seguito i monatti sul carro si complimentano con Renzo che credono davvero un untore e al quale dicono, tra le risa di scherno, che fa bene a "ungere" la città: gli offrono da bere del vino da un fiasco (che il giovane rifiuta cortesemente) e uno dei monatti si rivolge in modo macabro e beffardo a uno dei cadaveri, che indica come il padrone del vino e al quale rivolge un grottesco brindisi; il fiasco passa poi di mano in mano, finché resta vuoto e uno dei figuri lo sfascia con un lancio sulla strada gridando "Viva la morìa!". Il carro prosegue il suo viaggio mentre i monatti intonano una canzonaccia, e quando raggiungono il lazzaretto Renzo è lesto a ringraziare i suoi salvatori e ad allontanarsi, mentre uno dei monatti lo chiama "povero untorello" e osserva ironicamente che non sarà lui a spopolare Milano (ai loro occhi gli untori sono benemeriti, perché spargono il contagio che assicura loro il guadagno).
All'interno del lazzaretto Renzo, introdottosi nel quartiere delle donne, indossa un campanello al piede per fingersi un monatto (XXXVI) ed è successivamente apostrofato da un commissario di Sanità che gli ordina di recarsi in una delle capanne dove è richiesto il suo intervento: il giovane si allontana e si china per togliersi il contrassegno, avvicinandosi a una capanna da cui poi sente provenire le voci di Lucia e della mercantessa. Alla fine del romanzo (XXXVIII), nel trarre la morale delle vicissitudini affrontate nella sua vita, Renzo dirà di aver imparato tra le altre cose a non attaccarsi "un campanello al piede", in ricordo di quanto aveva fatto appunto al lazzaretto.
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
Compare nel cap. IX ed è il conducente del calesse (baroccio) incaricato da padre Cristoforo di portare Renzo, Agnese e Lucia a Monza dopo la fuga dei tre dal loro paese: l'uomo rifiuta la ricompensa che vorrebbe dargli Renzo e, dopo che il giovane è ripartito per Milano, accompagna le due donne al convento dei cappuccini e in seguito al convento delle monache, dove esse sono presentate a Gertrude. Prima di arrivare al convento informa Agnese che la "Signora" appartiene a una ricca e nobile famiglia milanese ("gente grande, venuta di Spagna, dove son quelli che comandano") e che per questo gode di una posizione privilegiata nel monastero, quasi come se fosse la madre badessa.
Compare nel cap. XIII ed è il cocchiere che conduce la carrozza con cui Ferrer, gran cancelliere spagnolo, giunge alla casa del vicario di Provvisione per sottrarlo alla folla che intende linciarlo: è uno dei più felici bozzetti comici del romanzo e risulta una sorta di "doppio" parodico del suo padrone, dal momento che si mostra pieno di ossequio e di rispetto per la folla quando questa è vicina e minacciosa, salvo poi diventare molto meno cerimonioso quando la carrozza è al sicuro e protetta dai soldati (un atteggiamento simile, anche se a un livello più "alto", è osservato dallo stesso Ferrer). È quasi divenuta proverbiale la frase che gli rivolge il padrone, quando gli dice "Pedro, adelante con juicio", per indurlo ad avanzare cautamente con la carrozza tra la folla.
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È un aristocratico cugino di don Rodrigo, che risiede abitualmente a Milano e che, nei capp. iniziali del romanzo, trascorre un periodo di villeggiatura ospite nel palazzo del signorotto: viene descritto come un nobile ozioso, che vive di rendita come il cugino e che si diverte a passare il tempo tra scherzi, sciocche dispute cavalleresche e comportamenti frivoli (per approfondire: G. Bàrberi Squarotti, Il conte Attilio, ritratto di un'anima frivola). Di lui si parla già nel cap. III, quando Lucia racconta di averlo visto insieme a don Rodrigo allorché quest'ultimo l'ha importunata per strada e di averlo sentito ridere insieme al cugino parlando di una scommessa (dunque il signorotto ha scommesso con lui che riuscirà a sedurre la giovane popolana e apprenderemo in seguito, nel cap. VII, che il termine fissato è il giorno di S. Martino, l'11 novembre). Compare direttamente per la prima volta nel cap. V, quando padre Cristoforo va al palazzo di don Rodrigo per parlargli e lo trova a tavola con i suoi commensali, fra cui appunto il cugino: questi chiama subito a gran voce il frate quando il religioso si affaccia timidamente alla porta della sala, obbligando Rodrigo ad accoglierlo benché ne avrebbe fatto volentieri a meno, e Cristoforo verrà poi trascinato nell'insulsa disputa cavalleresca che oppone Attilio al podestà di Lecco, riguardante una sfida a duello. Il cappuccino risponderà che per lui non dovrebbero mai esservi sfide o duelli, al che il conte ribatterà che un mondo senza il "punto d'onore" sarebbe inimmaginabile (nonostante la sua frivolezza, infatti, Attilio si mostra molto attaccato ai suoi privilegi nobiliari e particolarmente geloso dell'onore della propria famiglia). È lui a rivolgersi al conte zio, importante uomo politico milanese, affinché faccia allontanare padre Cristoforo da Pescarenico, facendo leva proprio sul concetto di "onore" che è minacciato dal frate e fornendo ovviamente allo zio una versione addomesticata della vicenda che coinvolge Rodrigo e Lucia. La sua morte per la peste viene menzionata all'inizio del cap. XXXIII, quando si dice che don Rodrigo ha pronunciato un bizzarro elogio funebre in onore del cugino durante una cena con amici a Milano.
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È lo zio di don Rodrigo e Attilio, membro del Consiglio Segreto del governo milanese e influente uomo politico: viene descritto come personaggio tronfio e vanaglorioso, abile nell'arte sottile di simulare e dissimulare e capace all'occorrenza di minacciare e lunsingare pur di ottenere i suoi scopi (rappresenta il potere politico esecrato dall'autore, in quanto fondato su menzogna e finzione come nel caso del gran cancelliere Ferrer, col quale il conte zio ha più di un'attinenza). È nominato per la prima volta nel cap. XI, quando il conte Attilio manifesta il proposito di rivolgersi a lui per indurlo a fare allontanare padre Cristoforo dal suo convento e impedirgli così di intralciare i piani di don Rodrigo; compare direttamente nel cap. XVIII, allorché il nipote Attilio si reca da lui a Milano per parlargli del frate e ottenere il suo aiuto nella faccenda. Attilio è assai abile a solleticare lo zio nella sua vanità di uomo politico, ricordandogli più volte il peso degli affari di Stato (l'altro sbuffa con gesto plateale, per sottolineare le incombenze cui deve far fronte), quindi gli fornisce una versione addomesticata del contrasto fra Rodrigo e padre Cristoforo, insinuando la volgare calunnia che il frate sia invaghito di Lucia e volesse farla sposare con Renzo, sua creatura e cattivo soggetto in quanto ricercato dalla legge, mentre Rodrigo si sarebbe messo di traverso a causa di un'innocente passione per la ragazza. Il conte zio crede ad Attilio e si mostra assai irritato del fatto che il frate "temerario" si sia messo contro suo nipote, dunque accetta di intervenire per proteggere l'onore del casato, di cui Attilio affetta di preoccuparsi (egli è abile a far credere allo zio che Rodrigo voglia vendicarsi del frate, argomento decisivo nell'indurre l'uomo a prendere a cuore la questione). Reagisce con una certa stizza quanto Attilio gli consiglia di fare pressioni sul padre provinciale dei cappuccini, anche se è chiaro che seguirà il suggerimento, quindi congeda il nipote con la consueta formula "e abbiamo giudizio".
Nel cap. XIX il conte zio invita a pranzo il padre provinciale e lo fa sedere a una tavola insieme a commensali molto altolocati, parlando poi appositamente dello splendore della corte di Madrid dove lui è di casa. In seguito si apparta col prelato in un'altra stanza e inizia a parlargli di padre Cristoforo, accusandolo di essere un frate inquieto, di proteggere il famoso ricercato Lorenzo Tramaglino, di avere un passato turbolento e sospetto; parla dei contrasti sorti tra lui e il nipote don Rodrigo, arrivando a insinuare che il frate abbia dei comportamenti non adatti al suo abito e suggerendo di allontanarlo da Pescarenico per evitare problemi, onde evitare conseguenze che potrebbero coinvolgere conoscenze altolocate della famiglia. Il padre provinciale obietta che ciò sembrerebbe una punizione, ma il conte zio ribatte che la cosa sanerà la situazione prima che possa degenerare, convincendo infine il prelato il quale, osserva, potrebbe mandare Cristoforo a Rimini, dove è appunto richiesto un predicatore. Il conte zio promette che la cosa resterà fra di loro e Rodrigo non ne saprà nulla, quindi non solo non se ne potrà vantare come di una vittoria personale, ma sarà pronto a compiere un gesto di palese amicizia verso l'ordine dei cappuccini, verso cui ha peraltro molto rispetto. Alla fine del colloquio i due uomini si riuniscono agli altri ospiti, non prima però che il nobile ceda cavallerescamente il passo al padre cappuccino.
La sua morte durante l'epidemia di peste viene ricordata nel cap. XXXV, come una delle condizioni che hanno permesso a padre Cristoforo di andare da Rimini al lazzaretto di Milano per accudire gli ammalati.
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
Compare nel cap. XII, durante la sommossa a Milano del giorno di S. Martino, e viene presentato in occasione dell'assalto al forno delle Grucce: è l'ufficiale incaricato di mantenere l'ordine pubblico in città, dunque viene mandato a chiamare quando la folla dei rivoltosi si avvicina minacciosamente alla bottega. Si presenta alla testa di una squadra di alabardieri e tenta inutilmente di blandire la folla con parole diplomatiche, promettendo clemenza a chi se ne tornerà a casa; in seguito entra nel forno e si affaccia a una finestra, tornando a rivolgersi ai rivoltosi con parole lusinghiere, finché una pietra non lo colpisce alla testa e lo induce a cambiare improvvisamente tono (l'uomo prorompe nell'esclamazione "Ah canaglia!", mentre poco prima diceva che i milanesi sono famosi nel mondo per la loro bontà). Quando la folla irrompe all'interno del forno si nasconde in un angolo, lasciando di fatto che la bottega sia messa a soqquadro dai rivoltosi. In seguito è nominato nel cap. XV, quando l'oste della Luna Piena va a rendere la sua deposizione al palazzo di giustizia e viene spiegato che il poliziotto travestito che ha raggirato Renzo era proprio un "bargello" sguinzagliato dal capitano per arrestare qualcuno dei rivoltosi e dare un pronto esempio ai sediziosi. È una delle figure più amaramente comiche del romanzo, rappresentando l'impotenza dell'amministrazione giudiziaria di fronte ai moti popolari.
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È il magistrato minore che amministra l'ordine pubblico e la giustizia nel paesino di Renzo e Lucia, con poteri simili a quelli di un odierno sindaco anche se molto più limitati: compare nel cap. VIII, quando il sacrestano Ambrogio durante la "notte degli imbrogli" suona le campane a martello per richiamare la popolazione alla casa di don Abbondio, in seguito al fallito stratagemma del "matrimonio a sorpresa". Il console tenta di mettersi alla testa dei paesani, sia pure in modo poco organizzato e con scarsa convinzione, al punto che inizialmente sembra pronto a gettarsi all'inseguimento dei bravi che si sono introdotti nella casa di Agnese e Lucia, poi però non fa nulla quando si sparge la voce, ovviamente infondata, che le due donne sono al sicuro in una casa e lascia che la folla si disperda. Il giorno seguente, mentre è intento a vangare l'orto e a riflettere sul da farsi dopo gli avvenimenti della notte, riceve la visita di due bravi mandati dal Griso che gli intimano di non rivelare nulla di quanto avvenuto la notte precedente e di non farne parola al podestà, se gli preme di morire di malattia (l'autore osserva che i due sgherri potrebbero essere gli stessi che cinque giorni prima avevano minacciato don Abbondio, anche se questa volta hanno un atteggiamento meno cerimonioso). Il console viene ancora citato di sfuggita nel cap. XI, quando don Rodrigo ordina al Griso di mandare qualcuno a minacciarlo (come già narrato nel cap. VIII) e quando la cosa è riferita in seguito dallo stesso signorotto al conte Attilio. Compare ancora nel cap. XVIII, quando accompagna il podestà e i birri alla casa di Renzo, per perquisirla in quanto il giovane è ricercato dalla giustizia in seguito al tumulto di S. Martino.
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È un aristocratico della città (non meglio specificata) in cui vive Lodovico e compare nel cap. IV, durante il flashback che narra la gioventù di padre Cristoforo: l'uomo non prova molto dolore per la morte del fratello ucciso da Lodovico durante un duello, ma le regole del decoro nobiliare gli impongono di vendicare l'offesa arrecata alla sua famiglia, dunque dapprima chiede invano che Lodovico gli sia consegnato dai frati cappuccini nel cui convento il giovane si è rifugiato, poi accoglie con soddisfazione la sua decisione di indossare il saio. Quando Lodovico si reca al suo palazzo per chiedere il suo perdono l'uomo sfrutta l'occasione come una soddisfazione pubblica e accoglie il frate circondato da amici e parenti nobili, in una sorta di cerimonia sfarzosa: il suo atteggiamento è dapprima altero e sdegnoso, tuttavia il sincero pentimento di fra Cristoforo prevale sul suo orgoglio nobiliare e alla fine l'aristocratico lo perdona di cuore, imitato da tutti i presenti. Consegna al frate un pezzo di pane, come simbolo dell'avvenuta riappacificazione, conservato poi da padre Cristoforo come il "pane del perdono" e donato poi a Renzo e Lucia nel cap. XXXVI.
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È il capo dei bravi di don Rodrigo, al quale il signorotto affida incarichi delicati e commissiona imprese rischiose, come quella di rapire Lucia nella prima parte del romanzo: entra in scena nel cap. VII, quando si intrufola in casa di Lucia e Agnese travestito da mendicante per guardare in giro e curiosare, senza che venga svelata la sua identità (in seguito l'autore spiegherà con un flashback che l'uomo ha effettuato il "sopralluogo" in vista del tentativo di rapimento che si svolgerà la sera stessa). Di lui non c'è una precisa descrizione fisica e del suo passato ci viene spiegato che, dopo aver assassinato un uomo in pieno giorno, si era messo sotto la protezione di don Rodrigo e aveva guadagnato l'impunità grazie alle aderenze del nobile, per cui è diventato l'esecutore di tutte le malefatte che gli vengono commissionate ("Griso" è certamente un soprannome e in dialetto lombardo significa "grigio", con probabile allusione al carattere sinistro e tetro del personaggio). Viene presentato come uno dei personaggi più odiosi del romanzo, pieno di untuoso servilismo nei confronti del suo padrone e di una certa sicumera che però, alla prova dei fatti, non sempre corrisponde alle sue reali capacità; infatti fallisce l'impresa di rapire Lucia la "notte degli imbrogli" (VIII) e in seguito torna dal padrone con la coda tra le zampe (XI), venendo rimproverato per non aver mantenuto quanto aveva promesso con tanta saccenteria. Reagisce con una certa titubanza all'ordine di don Rodrigo di recarsi a Monza per prendere informazioni circa il convento in cui Lucia si è rifugiata, adducendo il motivo di una taglia che pende sulla sua testa in quella città e attirandosi nuovi rimproveri del padrone, che lo definisce un "can da pagliaio" (con allusione al suo poco coraggio); il bravo compie comunque la sua missione e riferisce poi al nobile dettagli più precisi circa il rifugio di Lucia (XVIII), mentre più avanti accompagna il padrone al castello dell'innominato (XIX-XX). Si accorge infine che don Rodrigo è ammalato di peste (XXXIII) e promette di chiamare un medico per curarlo, mentre in realtà si accorda con i monatti per far portare il padrone al lazzaretto e approfittare della situazione per derubarlo: l'avidità lo spinge a prendere i vestiti di don Rodrigo e a scuoterli per vedere se c'è del denaro, cosa che fa ammalare anche lui di peste (il giorno dopo si sente male, è caricato dai monatti su un carro dopo essere stato derubato a sua volta e qui muore prima di arrivare al lazzaretto). Il modo assai sbrigativo con cui la sua figura esce di scena è indicativo della bassezza morale e della piccolezza del personaggio, alla cui fine l'autore dedica poche righe a metà del cap. XXXIII.
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
Compare nel capitolo finale del romanzo (XXXVIII) ed è l'aristocratico che eredita tutti i beni di don Rodrigo, morto di peste al lazzaretto di Milano: giunge al palazzotto del defunto signore per entrare in possesso dell'eredità e il suo arrivo è riferito da Renzo a don Abbondio, come prova dell'avvenuta morte del signorotto e indurre così il curato a celebrare finalmente il matrimonio tra lui e Lucia. Il fatto è confermato anche dal sagrestano Ambrogio e solo allora don Abbondio si rassicura e si lascia andare ad alcune considerazioni poco lusinghiere sul conto di don Rodrigo, mentre il marchese è da lui definito "un bravo signore davvero" e "un uomo della stampa antica". Il giorno dopo è lo stesso marchese a fare visita al curato e in quest'occasione il nobile è descritto come "un uomo tra la virilità e la vecchiezza" e oltre a ciò "aperto, cortese, placido, umile, dignitoso", proprio l'opposto di ciò che era stato don Rodrigo: egli porge a don Abbondio i saluti del cardinal Borromeo e chiede notizie dei due giovani un tempo perseguitati dal defunto parente, al che il curato risponde che sono scampati alla peste e in procinto di sposarsi; il marchese chiede cosa possa fare per aiutarli e riparare così in parte al male commesso da don Rodrigo (egli ha infatti perso i suoi due figli e la moglie, dunque possiede un vasto patrimonio accresciuto da tre eredità) e il curato gli propone prontamente di acquistare i terreni di Renzo e Agnese, i quali sono in predicato di lasciare il paese per trasferirsi insieme a Lucia nel Bergamasco e devono perciò trovare un compratore per le loro proprietà. Il marchese non solo accoglie il suggerimento, ma propone a sua volta a don Abbondio di fissare lui il prezzo e di andare subito a casa di Lucia per intavolare la trattativa: durante il tragitto, il sacerdote chiede al nobile di interessarsi per far revocare il mandato di cattura che pende ancora su Renzo per via dei fatti del tumulto di S. Martino a Milano, cosa che il marchese si impegna a fare anche perché il curato assicura che il giovane non ha commesso gravi reati. Giunti a casa di Lucia e Agnese, dove ci sono anche Renzo e la mercantessa, la trattativa viene presto conclusa con il marchese che pattuisce un prezzo molto alto per l'acquisto delle terre e invita a pranzo tutta la compagnia per il giorno dopo le nozze in quello che fu il palazzo di don Rodrigo, per stilare il compromesso legale. Qui il marchese riserva agli sposi una calda accoglienza e poi li mette a tavola con Agnese e la mercantessa in un tinello, mentre lui si ritira a pranzare con don Abbondio in un'altra sala, suscitando l'osservazione ironica del narratore circa il fatto che sarebbe stato assai più semplice pranzare tutti assieme: l'autore lo definisce "umile", ma non "un portento d'umiltà", aggiungendo che ne "aveva quanta ne bisognava per mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per istar loro in pari" (egli allude alla rigida divisioni in classi sociali in base alla quale era impensabile per un aristocratico sedere alla stessa tavola con borghesi e popolani, benché tale visione sociale fosse in certo modo ancora in vigore anche al tempo di Manzoni). Il personaggio rappresenta comunque l'unica eccezione fra i personaggi nobili del romanzo, in quanto non sembra condividere l'attaccamento alle concezioni di onore e cavalleria che sono all'origine di molti soprusi a danno degli umili e, soprattutto, cerca di riparare ai torti commessi da don Rodrigo, agevolando di fatto l'inizio della nuova vita degli sposi in quella che sarà la loro nuova patria.
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È un commerciante di stoffe di Milano che smonta all'osteria di Gorgonzola in cui è da poco entrato Renzo, in fuga in seguito al tumulto di S. Martino: compare nel cap. XVI ed ha un'importante funzione narrativa, in quanto informa il lettore sugli sviluppi della sommossa nella giornata del 12 novembre 1628. L'uomo è accolto con calore dagli avventori della locanda, che gli si affollano intorno per avere notizie dei fatti di Milano; il mercante promette di raccontare tutto, entra nella taverna e chiede all'oste il solito boccone e il solito letto, poiché intende ripartire il mattino presto alla volta di Bergamo. Egli beve un sorso di vino e inizia a raccontare gli eventi della giornata, in cui i rivoltosi hanno dapprima tentato di assaltare nuovamente la casa del vicario di Provvisione, poi hanno saccheggiato il forno del Cordusio meditando addirittura di incendiarlo, proposito che hanno abbandonato in seguito a una processione dei monsignori del duomo che, tra l'altro, hanno parlato del nuovo ribassamento del prezzo del pane. Il mercante aggiunge che alcuni capi della rivolta sono stati catturati e verranno presto impiccati (una cosa giusta, secondo lui, per dissuadere la folla dal compiere altri disordini), quindi parla della vicenda di Renzo deformandone in modo grottesco i dettagli, dipingendo il giovane come un capo della sommossa in possesso di un "fascio di lettere" in cui c'è tutta la trama del tumulto (Renzo, che ascolta ogni cosa con preoccupazione e simulata indifferenza, imprecherà successivamente contro la superficiale scorrettezza di tale ricostruzione). Il personaggio esprime il punto di vista "borghese" sulla sommossa, preoccupandosi unicamente di difendere i suoi interessi economici e invocando processi sommari contro i capi-popolo, mentre anche la religione diventa per lui strumento di repressione popolare. È mostrato come un uomo metodico, dai gesti abituali, dotato di un'eccellente parlantina che gli permette di avere l'attenzione del suo uditorio e di convincere tutti delle sue ragioni (gli avventori dell'osteria, che poco prima volevano andare a Milano, dopo il suo racconto si rallegrano di non aver preso parte al tumulto).
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È uno dei bravi al servizio dell'innominato, suo luogotenente e l'elemento più valido al quale il bandito affida gli incarichi più delicati: compare nel cap. XX, dopo che il suo padrone ha accettato, sia pure con qualche remora, di aiutare don Rodrigo a rapire Lucia dal convento di Monza in cui è rifugiata sotto la protezione di Gertrude (l'innominato gli ordina di andare in quella città e contattare Egidio, suo compagno di scelleratezze dal quale spera di avere sostegno). Poco tempo dopo il Nibbio torna con la risposta di Egidio, che promette che l'impresa sarà "facile e sicura" e fornisce le istruzioni per portare a termine il rapimento della ragazza, quindi l'innominato incarica il Nibbio di occuparsene e disporre tutto secondo le indicazioni del giovinastro amante della "Signora".
Il Nibbio torna a Monza con una carrozza e due bravi, con l'aiuto dei quali rapisce Lucia che è stata fatta uscire dal convento con un inganno di Gertrude: mentre uno sgherro d'Egidio distrae la ragazza fingendo di chiederle un'indicazione sulla strada per Monza, il Nibbio la afferra per la vita e la caccia nella carrozza, che poi riparte a spron battuto con a bordo la prigioniera. Lucia, terrorizzata, tenta subito di fuggire ma viene trattenuta dai bravi, quindi sviene e mentre è priva di sensi il Nibbio ordina ai compagni di prendere i fucili senza farli vedere alla ragazza, che definisce un "pulcin bagnato che basisce per nulla" (sarà lui a parlarle quando rinverrà e a tenerla ferma, mentre i compari sono invitati a non farle paura). Quando Lucia riprende i sensi tenta nuovamente di gettarsi fuori dallo sportello, viene tuttavia trattenuta e il Nibbio le ordina di tacere, minacciandola di tapparle di nuovo la bocca col fazzoletto; la giovane inizia poi a pregare i suoi rapitori di lasciarla andare, al che il Nibbio la esorta a calmarsi dicendole che, se l'avessero voluta uccidere, l'avrebbero già fatto, poi le rivela che è stato loro ordinato di rapirla e ovviamente rifiuta di indicare il nome del loro padrone. Alla fine del lungo viaggio la carrozza giunge al castello dell'innominato (XXI), dove Lucia è obbligata a salire sulla portantina insieme alla vecchia ed è indotta a non urlare dal Nibbio, che le fa "gli occhiacci del fazzoletto"; l'uomo corre poi a fare il suo rapporto al padrone, come ordinato dalla vecchia, e riferisce che tutto è andato secondo i piani, anche se, ammette, avrebbe preferito uccidere Lucia piuttosto che sentire i suoi pianti e le sue preghiere durante il viaggio, cosa che lo ha mosso a "compassione". L'innominato è sbalordito a una tale affermazione e chiede ulteriori spiegazioni al suo luogotenente, il quale definisce la compassione come la paura, poiché quando uno "la lascia prender possesso, non è più uomo", aggiungendo altri dettagli "pietosi" circa lo spavento di Lucia, le sue suppliche, il suo mortale pallore. Alla fine l'innominato gli ordina di andare a riposare in attesa di ulteriori ordini e dopo questo episodio non compare più nel romanzo (ignoriamo, pertanto, se egli sia rimasto col padrone dopo la sua clamorosa conversione).
Benché il suo ruolo sia secondario, il Nibbio ha comunque una parte essenziale nel ravvedimento dell'innominato, poiché parlando della compassione provata per Lucia suscita nel padrone la curiosità di recarsi a vederla nella stanza dov'è prigioniera, incontro dal quale nasceranno poi i rimorsi che spingeranno il bandito a voler incontrare il cardinal Borromeo e poi a pentirsi pubblicamente. Il suo ruolo fra i bravi dell'innominato è simile a quello del Griso per don Rodrigo, anche se rispetto a quello il Nibbio si mostra più umano (sulla carrozza ordina ai compagni di non spaventare inutilmente Lucia ed egli stesso evita di essere troppo duro con lei) e proprio questo suo lato "compassionevole" sarà poi decisivo nella positiva svolta della vicenda. Il nome allude all'uccello rapace ed è evidentemente un epiteto di battaglia, come nel caso degli altri bravi indicati nel corso del romanzo.
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È il funzionario addetto alla giustizia criminale che trae in arresto Renzo a Milano, il giorno seguente il tumulto di S. Martino in cui il giovane è rimasto coinvolto pur non avendo commesso alcun delitto: compare nel cap. XV, dopo che il poliziotto travestito ha avvicinato Renzo all'osteria della Luna Piena e gli ha estorto con uno stratagemma il nome per spiccare contro di lui un mandato di cattura, dopo aver tentato inutilmente di servirsi dell'aiuto dell'oste (costui aveva chiesto a Renzo di dirgli il nome in virtù di una grida, che prescrive ai gestori di locande di registrare tutti coloro che vi alloggiano per dormire). È lo stesso oste a recarsi al palazzo di giustizia, a tarda sera, per rendere testimonianza di fronte al notaio circa i fatti che sono avvenuti alla sua taverna: il magistrato lo informa che la giustizia sa già il nome di Renzo e accusa velatamente l'oste di non dire tutta la verità, poiché il giovane ha portato nell'osteria un pane rubato durante l'assalto ai forni (in realtà Renzo l'aveva raccolto in terra al suo ingresso in città) e ha sobillato gli altri avventori con parole sediziose (mentre si è limitato a inveire contro le gride che, a suo dire, non garantiscono la giustizia alla povera gente). L'oste riesce con furbizia e diplomazia a eludere le insinuazioni del notaio, il quale cerca di convincerlo che la giustizia colpirà in modo implacabile i rivoltosi e gli chiede dove si trovi ora Renzo: l'oste ribatte che il giovane sta dormendo alla locanda e il notaio gli ordina di sorvegliarlo e di non farlo scappare, cosa che tra l'altro dimostra tutta l'impotenza e la scarsità di mezzi della giustizia, nonostante l'atteggiamento tracotante e pieno di alterigia del funzionario (l'oste ne è ben consapevole e tutto il dialogo è pieno di sottintesi ironici, con il locandiere che bada solo a proteggere i suoi interessi e si tiene alla larga dalle questioni giudiziarie).
Il mattino dopo il notaio si reca all'osteria in compagnia di due birri, per trarre in arresto Renzo che viene svegliato nella sua stanza mentre è ancora in preda al sonno: il funzionario è preoccupato, poiché venendo lì ha notato nelle strade la presenza di molti gruppi di popolani e teme che si preparino altri disordini, come il vociare crescente che proviene dall'esterno sembra confermare; l'uomo teme che Renzo possa trovare l'appoggio di altri rivoltosi, dunque preferisce tenerlo buono ed evitare di portarlo via con la forza, nel timore che nascano tafferugli. Per questo finge di acconsentire quando Renzo chiede di essere condotto da Ferrer e accetta di restituirgli il denaro e la lettera di padre Cristoforo che gli aveva sequestrato, facendo poi cenno ai birri di non farlo adirare e di non reagire alle sue provocazioni (Renzo ha intuito che il notaio ha paura e decide di approfittarne per tentare la fuga alla prima occasione). Il magistrato gli fa mettere i "manichini", una sorta di manette che gli stringono i polsi, quindi cerca di convincerlo a seguirlo con le buone, senza dare nell'occhio quando sarà in strada e promettendogli che appena sarà sbrigata questa formalità Renzo sarà libero di andarsene: il giovane capisce che sono tutte menzogne e, una volta in strada, inizia ad attirare l'attenzione dei passanti, finché un gruppo di sediziosi non circonda la comitiva con fare minaccioso. Renzo chiede aiuto e dice che lo stanno arrestando perché ha gridato "pane e giustizia", quindi i birri lo lasciano andare e il notaio tenta di mescolarsi alla folla, in cui tuttavia non può passare inosservato per via della cappa nera che indossa e lo rende facilmente riconoscibile. Un popolano lo indica come un "corvaccio" e incita la folla contro di lui, anche se il notaio riesce a sottrarsi alla calca e a scampare miracolosamente al linciaggio.
Il personaggio è parte della critica manzoniana contro l'inefficienza e le storture del sistema giudiziario del XVII secolo, in quanto il notaio non è interessato a stabilire la verità ma solo a trovare un malcapitato da arrestare per i torbidi del giorno prima: Renzo è giudicato colpevole ben prima di essere interrogato e ciò sulla base di congetture e convincimenti personali, come appare chiaramente dal dialogo con l'oste della Luna Piena (in cui il notaio si comporta da grande inquisitore e usa il tipico linguaggio delle gride, attribuendo a Renzo dei crimini che non solo il giovane non ha commesso, ma per i quali non esiste alcuna prova). Il giorno dopo si comporterà in modo ben diverso e assumerà un atteggiamento comico pur di sottrarsi a una situazione difficile, fino a uscire di scena in modo ridicolo e vedendo fallire tutti i suoi stratagemmi (l'autore ironizza su di lui, anche col dire che il notaio faceva parte degli amici dell'anonimo autore del manoscritto).
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
Compare nel cap. IV, durante il flashback che narra la gioventù di padre Cristoforo ed ha un ruolo decisivo nel determinare la conversione di Lodovico e la sua decisione di diventare frate: viene descritto come un signore "arrogante e soverchiatore di professione", uno di quegli aristocratici coi quali Lodovico aveva avuto in precedenza dei dissidi e con cui c'era un odio ricambiato. I due si incontrano un giorno per strada e nasce un alterco per banali questioni cavalleresche, relative a chi dei due debba cedere il passo all'altro: lo scontro verbale degenera in un duello, nel corso del quale il nobile uccide il servitore Cristoforo e Lodovico uccide a sua volta il nobile, provandone poi orrore e rimorso (prima di morire, l'uomo perdona Lodovico e ne chiede a sua volta il perdono, come riferito al giovane da uno dei frati cappuccini del convento dove si è rifugiato). Sarà proprio questo fatto tragico a maturare in Lodovico la decisione di indossare la tonaca e di diventare, così, fra Cristoforo.
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
Compare nel cap. IX ed è il cappuccino del convento di Monza a cui padre Cristoforo ha indirizzato Agnese e Lucia, scrivendo loro una lettera di presentazione per il frate: questi la legge con attenzione, mostrando una certa riprovazione per quanto vi viene descritto, quindi conclude che solo la "Signora" (Gertrude, la monaca del convento della città) può offrire protezione alle due donne. Si dice disposto ad accompagnarle al chiostro, raccomandando tuttavia di seguirlo a una certa distanza per evitare che la gente chiacchieri vedendolo in compagnia di una "bella giovine", anche se poi si corregge dicendo "con donne". Presenta Agnese e Lucia a Gertrude e fornisce scarni particolari sulla persecuzione di don Rodrigo, anche se poi la monaca chiede ulteriori dettagli. È molto contento del fatto che la "Signora" accetti di ricoverare Lucia nel monastero e si affretta a informare padre Cristoforo con una lettera, dicendo tra sé che "anche noi qui, siam buoni a qualche cosa", soddisfatto di esser riuscito a trovare per le due donne un rifugio che egli reputa del tutto sicuro.
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
Compare nel cap. XIX ed è il cappuccino più alto in grado nel territorio dov'è situato il convento di Pescarenico, al quale si rivolge il conte zio su suggerimento del conte Attilio al fine di far allontanare padre Cristoforo dal convento ed eliminare, così, un ostacolo alle mire di don Rodrigo su Lucia. Il prelato è invitato a pranzo dall'uomo politico e siede a una superba tavolata insieme a commensali di alto rango, parenti titolati del conte e servili clienti: in un successivo colloquio a due, il conte zio insinua calunniosi sospetti sulla condotta di fra Cristoforo, alludendo alla sua protezione nei riguardi di Renzo (ricercato dalla giustizia per il tumulto di S. Martino), al suo passato turbolento, allo scontro con don Rodrigo per un'imprecisata questione. Il conte zio lascia intendere che la cosa dovrebbe essere stroncata sul nascere, onde evitare spiacevoli conseguenze che potrebbero coinvolgere altri nobili imparentati con la potente casata, così il padre, nonostante una debole e sempre meno convinta difesa d'ufficio di fra Cristoforo, è costretto ad accogliere la richiesta di allontanarlo dal suo convento. Decide di inviarlo perciò a Rimini, dove gli è richiesto un predicatore per la Quaresima, il che suscita la viva approvazione del conte zio, che sollecita d'altra parte l'urgenza del provvedimento. L'uomo politico si complimenta poi col prelato per la brillante soluzione a una faccenda che poteva diventare rischiosa, cedendogli rispettosamente il passo prima di uscire dalla stanza e riunirsi agli altri invitati. L'autore accenna alla sua morte nel corso del cap. XXXI, dedicato al diffondersi della peste a Milano, col dire che il commissario che ne fa le veci decide di affidare la direzione del lazzaretto a padre Felice Casati (il romanziere non precisa se il padre provinciale sia morto di peste o meno).
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
Compare nel cap. XXXIV, durante il secondo viaggio di Renzo a Milano durante la peste, ed è un cittadino cui il giovane si rivolge nella speranza di avere un'indicazione: Renzo gli si avvicina e si toglie rispettosamente il cappello, mettendo la mano destra all'interno del copricapo, gesto che l'altro equivoca scambiando il montanaro per un untore che sta per gettargli addosso un intruglio venefico. Il passante fa un passo indietro e punta un bastone acuminato contro Renzo gridandogli di allontanarsi, cosa che il giovane fa senza pensarci un attimo e senza capire la motivazione di tale comportamento. L'uomo torna a casa e racconta la disavventura che crede di aver vissuto, dicendo di aver incontrato un untore che intendeva gettargli addosso dell'unguento o della polvere e che lui si è salvato per miracolo; purtroppo, dice, era una zona isolata e non ha potuto chiamar gente, altrimenti l'untore sarebbe stato certamente linciato. L'uomo, osserva l'autore, vivrà ancora molti anni e racconterà spesso l'episodio, citandolo come prova inconfutabile dell'esistenza degli untori. Attraverso la sua figura Manzoni indica la facilità con cui un'assurda diceria può diffondersi tra la gente, come dimostra l'uomo il quale è certo di aver incontrato un untore pur non avendo visto in realtà nulla di sospetto ("quelli che sostengono ancora che non era vero, non lo vengano a dire a me; perché le cose bisogna averle viste").
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
Compare nel cap. XVII ed ha l'importante funzione di aiutare Renzo durante la sua fuga ad attraversare l'Adda, fiume che segna per un tratto il confine tra gli Stati di Milano e Venezia: l'uomo sta approdando con la sua barca sulla sponda milanese del fiume ed è richiamato da Renzo, il quale sale sul battello e gli chiede di traghettarlo sulla sponda bergamasca in cambio di denaro. Il pescatore accetta e, quando vede che Renzo sa maneggiare bene il remo, capisce che è pratico di imbarcazioni. Risponde alla domanda del giovane spiegando che la città che si vede sull'altra sponda è Bergamo e che quella è "terra di san Marco", ovvero territorio della Repubblica di Venezia. Dopo che ha portato Renzo dall'altra parte, il giovane lo ricompensa con una berlinga e l'uomo gli augura buon viaggio (l'autore spiega che egli è solito svolgere un tale servizio, non tanto per avidità di denaro ma per tenersi buoni banditi e contrabbandieri).
Compare nel cap. XVIII ed è un modesto pescatore di Pescarenico che si reca ogni giovedì a Milano per vendere la sua merce: padre Cristoforo, che ha appreso della fuga di Renzo, lo invita a passare da Monza e avvertire Agnese e Lucia che il giovane è felicemente riparato nel Bergamasco, invitandole da parte sua a confidare nella Provvidenza e promettendo il suo aiuto. L'uomo si reca da loro una seconda volta, ma poi non riceve più alcuna commissione in quanto il frate è stato nel frattempo mandato a Rimini. Agnese gli chiede di accompagnarla a Pescarenico col suo baroccio e il pesciaiolo accetta senza bisogno di essere pregato, ricevendo in seguito molti ringraziamenti da parte della donna.
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È il magistrato che amministra la giustizia a Lecco, colui al quale (come ricorda l'autore) toccherebbe "a far giustizia a Renzo Tramaglino, e a fare star a dovere don Rodrigo": in realtà il podestà è un amico del signorotto e frequentatore della sua casa, per cui si può immaginare che il giudice, se proprio non è complice delle sue malefatte, è tuttavia disposto a chiudere un occhio su di esse e a farsene compiacente (nel cap. XI don Rodrigo, nell'attesa che il Griso e i bravi compiano il rapimento di Lucia e tornino al palazzo, riflette sulle possibili conseguenze legali e osserva che "Il podestà non è un ragazzo, né un matto", alludendo alla sua condiscendenza riguardo il delitto commesso). È un personaggio secondario e appare direttamente per l'unica volta nel cap. V, quando padre Cristoforo si reca al palazzotto di don Rodrigo per parlare con lui e lo trova seduto a tavola con i suoi convitati, tra cui appunto il podestà che è impegnato in una frivola disputa cavalleresca col conte Attilio: quest'ultimo sostiene che un cavaliere ha legittimamente bastonato il servo che gli ha consegnato la sfida a duello per il fratello, mentre il podestà afferma che l'ambasciatore è persona sacra e inviolabile (è chiaro che a nessuno dei due interessa minimamente della sorte del messaggero, la loro è una sciocca e oziosa disputa di codici cavallereschi). Il podestà si mostra infervorato nella questione e sostiene le sue tesi con dotte citazioni (il Tasso, il diritto romano, sillogismi latini...), che però svelano la vacuità e la saccenteria del personaggio; ciò emerge soprattutto nel successivo discorso, quando il podestà, parlando della guerra in atto per la successione del ducato di Mantova, tesse un bizzarro e sconclusionato elogio al conte-duca Olivares, primo ministro spagnolo (il magistrato si mostra acceso sostenitore degli Spagnoli nella guerra, ovviamente, e si vanta di essere in stretti rapporti col castellano di Lecco, ovvero il comandante della guarnigione militare della città). Egli si rivela anche piuttosto superficiale e ignorante, dal momento che vuole correggere Attilio ma storpia malamente il nome del condottiero boemo Wallenstein (lo chiama "Vagliensteino", con pronuncia spagnoleggiante) e più avanti deforma in modo ridicolo anche quello del cardinale Richelieu, che diventa "Riciliù". Più oltre (XI) sarà proprio il conte Attilio a definirlo "gran caparbio, gran testa vota, gran seccatore d’un podestà", aggiungendo però che è "un galantuomo, un uomo che sa il suo dovere", alludendo quindi anch'egli alla sua compiacenza riguardo le malefatte del cugino (Rodrigo accusa Attilio di contraddirlo sempre e di irritarlo, mentre a lui serve la protezione del magistrato).
Nel cap. XVIII il podestà riceve un dispaccio da Milano in cui gli si ordina di indagare su Renzo, fuggito in seguito al tumulto del giorno di S. Martino, quindi il magistrato esegue con estrema "diligenza" una perquisizione nella casa del giovane filatore di seta, mettendo tutto a soqquadro.
La notizia della sua morte per la peste è data a Renzo dall'amico che lo ospita al suo ritorno in paese dal Bergamasco (cap. XXXIII).
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
Compare nel cap. XXXIV, durante il secondo viaggio di Renzo a Milano durante la peste, ed è un sacerdote che il giovane vede in una strada di Borgo Nuovo, intento a confessare qualcuno in una casa attraverso uno spiraglio della porta. Il prete, che indossa un farsetto e porta un bastone, quando ha finito la sua opera si allontana dalla casa e viene verso Renzo, il quale pensa di chiedere a lui un'indicazione per raggiungere l'abitazione di don Ferrante. Il religioso appoggia il bastone a terra e fa capire al giovane che non deve avvicinarsi di più, quindi Renzo gli rivolge la sua richiesta e riceve non solo l'indicazione della strada della casa del nobile, ma anche un itinerario abbastanza preciso con cui lui, forestiero, possa trovarla senza difficoltà. Prima di andarsene Renzo parla al prete della donna sequestrata in casa dalla Sanità che ha incontrato poco prima e il sacerdote promette che avviserà chi di dovere del suo caso. Terminato il colloquio, Renzo si incammina verso la casa di don Ferrante.
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È il gentiluomo milanese padre di Gertrude, la "Signora" che offre rifugio ad Agnese e Lucia nel monastero di Monza dove la monaca gode di ampi privilegi: la sua figura è ispirata a quella di don Martino de Leyva, conte di Monza e padre di Marianna che costrinse a diventare monaca col nome di suor Virginia Maria nel 1591, anche se il personaggio è tratteggiato dall'autore con ampia libertà romanzesca e il suo nome non viene mai fatto. Compare nei capp. IX-X durante il flashback che narra il passato di Gertrude e nel quale il principe ha un ruolo da protagonista: decide che tutti i figli cadetti devono entrare in chiostro per non intaccare il patrimonio di famiglia, destinato interamente al primogenito, dunque il destino di Gertrude è segnato prima ancora che lei venga al mondo. Quando la figlia nasce le viene imposto un nome che richiami immediatamente l'idea del convento (forse l'autore pensa a santa Gertrude, figlia del beato Pipino) e per volere del padre essa viene educata nell'idea sottintesa che dovrà farsi monaca, benché questo non le sia mai detto in modo esplicito. A sei anni colloca la bambina come educanda nello stesso convento di Monza dove poi entrerà come suora e dove può contare sull'aiuto interessato della badessa e di altre monache notabili, che infatti riservano a Gertude un trattamento di favore e la inducono a sottoscrivere la supplica al vicario delle monache per essere sottoposta all'esame necessario per indossare il velo. In seguito la giovane torna a casa per trascorrervi un mese prima di affrontare l'esame e il principe usa una vera "tortura psicologica" per indurla ad acconsentire al suo volere, senza mai entrare in argomento ma facendo in modo che Gertrude viva in una condizione di quasi isolamento, senza ricevere l'affetto e il calore dei familiari che lei desidera più di ogni altra cosa. Quando la ragazza scrive il biglietto d'amore per il paggio, il principe coglie al volo l'occasione per forzarla al passo che gli sta a cuore, dapprima rimproverandola aspramente e minacciando oscuri castighi, poi facendole capire che il solo modo per ottenere il suo perdono è rinunciare alla vita nel mondo per la quale, col suo incauto comportamento, si è dimostrata indegna (egli fa leva sulla debolezza di carattere della figlia e anche sul concetto di onore e decoro nobiliare che informa ogni suo atto). Gertrude è indotta a dare il suo consenso e da quel momento il principe la spinge sulla strada della monacazione rendendole di fatto impossibile tornare indietro, dapprima accompagnandola in una uscita pubblica al convento di Monza dove la giovane chiede alla badessa di esservi ammessa come novizia, poi assicurandosi che Gertrude superi senza incertezza l'esame col vicario (l'uomo le fa intendere che, in caso contrario, renderebbe pubblico il "fallo" commesso con il paggio). Alla fine convince la figlia ad accettare di farsi monaca promettendole una vita di privilegi nel convento, dove sarà la prima dopo la badessa e assicurandole che sarà sollevata a quella dignità non appena avrà raggiunto l'età prescritta dal diritto canonico.
Il personaggio è una delle figure più odiose e negative del romanzo, dal momento che decide di sacrificare la felicità della figlia in nome del concetto di decoro aristocratico (cosa assurda secondo l'autore, dal momento che il suo patrimonio è talmente ampio da poter essere diviso tra tutti i figli) e non esita, pur di raggiungere il suo intento, a sottoporre Gertrude a delle autentiche crudeltà psicologiche, in cui alcuni critici hanno intravisto un riferimento all'educazione gesuitica. Il principe è protagonista di uno degli episodi del romanzo in cui Manzoni usa una tecnica narrativa attenta ai risvolti psicologici e attraverso di lui svolge una sottile critica al comportamento degli aristocratici, poiché il principe è in parte responsabile dei crimini successivamente compiuti da Gertrude insieme al suo amante Egidio.
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
Fa la sua apparizione nel cap. XXIV, allorché Lucia viene liberata dall'innominato dopo la sua conversione in seguito all'incontro con il cardinal Borromeo: il prelato chiede al curato del villaggio dove si trova in visita pastorale di trovare una "buona donna" che vada al castello del bandito insieme a quest'ultimo e a don Abbondio, per confortare Lucia al momento della liberazione, e il curato pensa alla moglie del sarto, che accetta subito con l'approvazione del marito. In seguito la donna porta Lucia nella sua casa e qui, poco dopo il suo arrivo, giunge anche il sarto in compagnia dei suoi bambini, di ritorno dalla chiesa dove la funzione è stata officiata dal cardinale. Il sarto è descritto dall'autore come un uomo semplice e dal carattere aperto e gioviale, che sa leggere e possiede libri di genere agiografico e avventuroso come il Leggendario dei santi e poemi cavallereschi quali il Guerrin meschino e i Reali di Francia; gli piace vantarsi un poco di essere una sorta di "letterato" nel paese, anche se è definito come "la miglior pasta del mondo". Riserva un caloroso benvenuto a Lucia e durante il pasto a tavola si dilunga a raccontare con toni enfatici della predica del cardinale, che loda per la sua chiarezza e la commozione che ha suscitato in tutti i fedeli, mentre elogia il Borromeo per la sua vita semplice e spesa in aiuto del prossimo. Anche lui dimostra di essere caritatevole, poiché incarica una delle sue figlie di portare qualcosa da mangiare a una certa Maria vedova (probabilmente una vicina di casa povera), raccomandando alla bambina di non dare l'impressione di far l'elemosina. In seguito il cardinale si reca in visita alla sua casa e l'uomo riserva al prelato un'accoglienza piena di rispetto e deferenza, anche se risponde goffamente al Borromeo quando chiede a lui e alla moglie di ospitare per qualche giorno Lucia e la madre Agnese (il sarto vorrebbe dare una risposta adeguata alla circostanza, ma per quanto si lambicchi il cervello non riesce a dire altro che un insulso "Si figuri!"). Il curato del paese spiegherà poi al cardinale che il sarto e la sua famiglia vivono in maniera agiata e non soffrono eccessivamente per la carestia, anche se l'uomo vanta dei crediti verso persone che non possono pagare e che il Borromeo si offre di ripianare al suo posto, benché il curato si affretti a dire che si tratta certo di una cifra ragguardevole.
Il sarto compare ancora nel cap. XXIX, quando don Abbondio, Perpetua e Agnese sono in fuga dal loro paese per sfuggire ai lanzichenecchi e si dirigono al castello dell'innominato per trovarvi un sicuro rifugio; durante il tragitto fanno una sosta al villaggio e vanno a salutare il sarto e la sua famiglia, da cui sono invitati a pranzo. Anche in questa occasione il sarto vuole fare sfoggio di cultura e afferma pomposamente che i soldati tedeschi non dovrebbero venire "in ospitazione" da quelle parti, con un termine in uso nel Seicento per indicare l'alloggiamento delle milizie, mentre più avanti paragona il passaggio dei lanzichenecchi alla "storia de' mori in Francia", con riferimento ai poemi cavallereschi che ama leggere. Riferisce inoltre che dopo la conversione l'innominato ha allontanato la maggior parte dei suoi bravi, diventando un esempio di carità e giustizia dopo essere stato il flagello di quella regione, mentre mostra poi ad Agnese una stampa che raffigura il cardinal Borromeo, convenendo tuttavia con la donna che la riproduzione non somiglia molto al personaggio. Procura poi un baroccio che accompagnerà i tre viandanti alla Malanotte e offre a don Abbondio dei libri in volgare da leggere durante il soggiorno al castello, anche se il curato li rifiuta in quanto, a suo dire, non avrà molto tempo da dedicare alla lettura di altro che non sia "di precetto" (allude al breviario che porta sempre con sé).
La sua ultima apparizione nel romanzo avviene nel cap. XXX, quando i tre sono ormai di ritorno dal castello dopo un soggiorno di poco più di venti giorni e passano a fare una "fermatina" alla casa dell'uomo, in tempo per sentire il racconto delle devastazioni compiute nei dintorni dai Lanzichenecchi (il sarto osserva che "s’ha da far de’ libri in istampa, sopra un fracasso di questa sorte").
Benché sia un personaggio secondario, il sarto è una delle figure più riuscite del romanzo e viene rappresentato come esempio di carità e solidarietà verso il prossimo, mentre la sua famigliola è un perfetto esempio di concordia domestica e apertura verso i bisognosi (in questo c'è un'analogia con la famiglia di Tonio, apparsa nel cap. VI). Attraverso il sarto l'autore elogia la vita semplice e moralmente retta degli abitanti della campagna, in contrasto con quella disordinata e caotica che caratterizza la città, mentre la tavola della sua casa (povera, ma comunque agiata a dispetto della carestia, come dimostra la presenza del pregiato cappone) è l'esatto contrario di quelle riccamente imbandite degli aristocratici che appaiono nel romanzo, come nel banchetto di don Rodrigo (V) o in quello del conte zio (XIX). Il sarto, inoltre, è un popolano che sa leggere e ama un po' ingenuamente fare sfoggio di cultura, anche se in maniera spesso goffa e involontariamente comica (come nel confronto col cardinal Borromeo), per cui la sua figura entra nel complesso della rappresentazione della cultura secentesca che è largamente presente nel romanzo.
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È uno dei rivoltosi che assaltano la casa del vicario di Provvisione (cap. XIII) ed è, a detta dell'autore, una sorta di sinistro spettacolo: agita in aria un martello, una corda e quattro chiodi coi quali afferma di voler attaccare il corpo del vicario a uno dei battenti della porta, dopo che il funzionario sarà stato ucciso (viene descritto come un personaggio dall'aspetto stralunato, con "due occhi affossati e infocati" e "un sogghigno di compiacenza diabolica", mentre la sua "canizie vituperosa" è implicitamente paragonata alla "decorosa vecchiezza" di Ferrer). Le sue parole suscitano un moto d'orrore spontaneo in Renzo, il quale esclama parole di condanna per qualsiasi proposito violento e, a causa di questo incauto atteggiamento, rischia di essere a sua volta linciato dalla folla.
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
Compare nei cap. V, VI e VII ed ha un ruolo decisivo nello svelare il progettato rapimento di Lucia: è descritto come un uomo non più giovane, già membro della servitù del defunto padre di don Rodrigo (un uomo di indole ben diversa dal figlio) ed il solo rimasto a palazzo quando la vecchia servitù è stata licenziata, poiché il vecchio ha una grande considerazione per il casato ed è esperto del cerimoniale, benché non rinunci talvolta a criticare con gli altri domestici la condotta del padrone che non approva. Accoglie con stupore padre Cristoforo al suo arrivo a palazzo (V) e afferma amaramente che "Sarà per far del bene. Del bene... se ne può far per tutto", per poi accompagnare il frate alla sala dove don Rodrigo è a pranzo con i suoi commensali. Dopo il colloquio tra padre Cristoforo e il padrone di casa (VI) avvicina in segreto il frate e gli rivela che il padrone sta macchinando qualche oscuro progetto di cui lui non ha ancora informazioni precise, dicendosi tuttavia disposto a venire al convento di Pescarenico per riferire più ampi dettagli al frate. Il vecchio riceve la benedizione del padre prima che esca dal palazzo, quindi si reca il giorno dopo al convento (VII) per informare il cappuccino del rapimento di Lucia, che ha appreso carpendo brandelli di conversazione tra Rodrigo e i suoi bravi. Si salva da una probabile rappresaglia del padrone, in quanto il fallimento dell'impresa viene attribuito al "matrimonio a sorpresa".
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
Compare nel cap. X ed è il sacerdote incaricato di esaminare Gertrude prima del suo ingresso nel monastero di Monza come novizia, col compito di accertare la sincerità della sua vocazione ed escludere che abbia subìto delle pressioni: è presentato come un "grave e dabben prete", anche se giunge al palazzo del principe padre della ragazza con una certa convinzione dell'effettiva volontà di quest'ultima circa il prendere il velo, dunque mostrando almeno in parte una certa ingenuità. L'uomo chiede subito a Gertrude se le siano state rivolte "minacce, o lusinghe" per indurla a farsi monaca, cosa alla quale la ragazza risponde prontamente dicendo che la sua decisione è libera, quindi il prete le domanda da quando abbia avuto questo pensiero e Gertrude ribatte che l'ha "sempre avuto". Quando la giovane dichiara che il motivo che la spinge è il desiderio "di servire Dio, e di fuggire i pericoli del mondo", il vicario insinua senza troppa convinzione che all'orgine potrebbe esserci qualche "disgusto", ma Gertrude è abile a dissimulare il vero motivo (le minacce e le costrizioni del padre) e dunque l'esaminatore si stanca di interrogarla prima che lei si stanchi di mentirgli. L'uomo si complimenta con la ragazza e poi lascia la sala, imbattendosi successivamente nel principe che sembra passare di lì per caso (ed è in realtà in ansiosa attesa dell'esito del colloquio), al quale comunica il felice risultato dell'esame cui ha sottoposto la figlia.
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
Compare nel cap. X ed è una delle laiche che vivono nel convento di Monza in cui Gertrude è monaca: viene a sapere della relazione clandestina tra la "Signora" ed Egidio, per cui un giorno, dopo che Gertrude l'ha trattata con molta durezza in seguito a una discussione, si lascia sfuggire che è a conoscenza del suo segreto e che è decisa a rivelarlo. In seguito la donna scompare e tutti credono che sia fuggita, specie dopo che si trova una breccia nel muro dell'orto (viene cercata a Meda, donde è originaria, e in altri luoghi, senza che se abbia più traccia); alla fine si pensa che si sia rifugiata in Olanda, mentre essa è stata uccisa da Edigio con la complicità della monaca (l'autore osserva che, anziché cercare lontano, si sarebbe dovuto scavare vicino, dunque è probabile che sia stata sepolta all'interno dello stesso monastero).
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
Compare nel cap. XXXIV, durante il secondo viaggio di Renzo a Milano durante la peste, ed è una donna il cui marito è morto per la malattia e il cui uscio è stato inchiodato dal Tribunale di Sanità per tenerla in isolmento: è lei a rivolgersi a Renzo che passa vicino alla sua "casuccia isolata", in strada S. Marco, affacciandosi a un terrazzino circondata da una "nidiata di bambini". La donna spiega a Renzo che i commissari di Sanità si sono dimenticati di lei e nessuno ha portato da mangiare dal mattino precedente, per cui i figli rischiano di morire di fame; Renzo è colpito e decide subito di donarle i due pani che ha acquistato il giorno prima a Monza, quindi la donna cala un paniere con una fune e può ricevere il cibo tra mille benedizioni e ringraziamenti. Renzo assicura alla donna che parlerà del suo caso alla prima persona ragionevole che incontrerà in strada (poiché, essendo straniero, non saprebbe dove trovare un commissario), poi le chiede indicazioni per raggiungere la casa di don Ferrante, che tuttavia la donna non è in grado di dargli. Renzo la ringrazia comunque e le assicura che si ricorderà di lei, quindi si allontana. L'episodio ha una minima valenza simbolica, poiché il gesto di carità di Renzo che dona il pane alla donna e ai suoi figli gli sembra una "restituzione" dei pani trovati in strada in occasione del primo viaggio a Milano, durante il tumulto di S. Martino, che tanti guai gli avevano causato e che avrebbe voluto pagare al legittimo proprietario. A Renzo pare che sia meglio così, dal momento che questa è stata "veramente un'opera di misericordia" (il gesto del giovane è parte del percorso di maturazione che si compie in questo secondo viaggio).
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È la donna laica che vive all'interno del monastero di Gertrude, a Monza, dove sovrintende ai lavori più umili entro le mura del chiostro: è presentata nel cap. IX, in occasione dell'arrivo al convento di Agnese e Lucia accompagnate dal padre guardiano, in cerca di ricovero dopo la loro fuga dal paese per il tentato rapimento della giovane da parte di don Rodrigo. La donna si mostra molto interessata al motivo della loro venuta e rivolge alle due molte domande insistenti, finché il padre guardiano le introduce al parlatorio della "Signora": in seguito proprio Gertrude dirà che l'ultima delle figlie della fattoressa si è da poco sposata e ha lasciato un alloggio libero al convento, che potrà essere occupato da Lucia e dalla madre (lei stessa ne parlerà alla madre badessa). In seguito (XVIII) sarà la fattoressa a informare Lucia e Agnese della clamorosa fuga di Renzo da Milano in seguito al tumulto di S. Martino, chiedendo alla madre della ragazza se conosce il filatore di seta originario del loro paese: Agnese risponde di sì, sia pure in modo vago, e afferma che Renzo è un "giovine posato", al che la fattoressa ribatte che la giustizia è sulle sue tracce e se riuscirà a riagguantarlo lo condannerà sicuramente a morte (la donna mostra una punta di malignità e un carattere decisamente pettegolo nel riferire tutti questi dettagli). Viene citata ancora indirettamente nel cap. XX, quando Gertrude manda Lucia a fare la sua ambasciata al convento dei cappuccini e le raccomanda di uscire senza farsi vedere dalla fattoressa (si tratta dell'inganno che porterà Lucia nelle mani dei bravi dell'innominato).
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
Compare nei cap. IX-X ed è la madre superiora del convento di Monza in cui Gertrude è monaca, lo stesso nella quale la giovane era stata collocata dal padre come educanda: essa ha un ruolo attivo nella "cospirazione" ordita dal principe per indurre la figlia a farsi monaca, per cui la ragazza gode nel monastero di ampi privilegi rispetto alle altre educande e viene indotta a sottoscrivere la supplica al vicario per essere sottoposta all'esame (per il chiostro avere Gertrude come monaca sarebbe un indubbio vantaggio "politico"). Manifesta tutta la sua disapprovazione a Gertrude quando lei scrive una lettera al padre in cui esprime riserve sulla sua monacazione (IX) e in seguito, quando la giovane ha dato il suo consenso, riceve la pubblica visita di lei e della sua famiglia al convento (X), in occasione della quale rammenta con deferenza e qualche timore al principe che l'uomo incorrerebbe nella scomunica se mai forzasse la figlia a quel passo (si tratta di una semplice formalità, dal momento che la badessa conosce perfettamente i disegni del nobile). In seguito fa in modo che il capitolo voti a favore dell'accettazione di Gertrude come novizia e non viene più nominata nel romanzo, salvo quando la "Signora" la dileggia agli occhi delle educande di cui è maestra.
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
Compare nel cap. XXXIV ed è protagonista di uno dei momenti più lirici e commoventi dell'intero romanzo, durante il viaggio di Renzo a Milano sconvolta dalla peste del 1630 (il giovane sta cercando di raggiungere la casa di don Ferrante e donna Prassede dove spera di trovare Lucia, che apprenderà in seguito trovarsi al lazzaretto): Renzo, da poco entrato in città, è giunto al carrobio di Porta Nuova e si dirige verso quella che oggi è via Montenapoleone, quando vede una giovane donna uscire dall'uscio di una casa e dirigersi verso il carro dei monatti, portando in braccio il cadavere di una bambina di circa nove anni. L'aspetto della donna lascia trasparire "una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale", poiché risulta evidente che essa ha versato molte lacrime e che ha già su di sé i segni del contagio della peste; la bambina morta che porta in braccio è ben pettinata coi capelli divisi sulla fronte e indossa un vestitino bianco e lindo, come se fosse agghindata per una festa, mentre la madre la tiene col capo eretto e appoggiato a sé come se fosse ancor viva, anche se un braccio che le cade abbandonato è un chiaro indizio che la bambina è ormai spirata. Un "turpe monatto" si avvicina alla donna per prendere il corpicino della figlia, sia pure con una esitazione e una forma di rispetto inusuale per un simile figuro, ma la donna si ritrae e chiede all'uomo di poter adagiare la bambina sul carro con le proprie mani, mettendo poi una borsa con del denaro nelle mani del monatto e facendosi promettere che la bambina verrà posta sottoterra così com'è vestita, senza "levarle un filo d'intorno". Il monatto promette con un gesto enfatico, quindi fa posto sul carro dei morti e la donna pone su di esso il piccolo corpo della figlia, dopo averle dato un bacio e mettendo poi un velo bianco su di lei, dicendole infine addio (la chiama Cecilia e le augura di riposare in pace, promettendole che presto lei e la sorella la raggiungeranno). La donna si rivolge ancora al monatto e gli ricorda che a sera dovrà ripassare da quella casa a raccogliere lei stessa e l'altra sua figlia, quindi rientra in casa e, poco dopo, si affaccia da una finestra tenendo in braccio un'altra bambina, "viva, ma coi segni della morte in volto", guardando il carro che si allontana e rientrando infine nell'abitazione (l'autore lascia intendere che probabilmente si stenderà sul letto insieme alla figlia e attenderà la morte, come un fiore già rigoglioso cade insieme al fiorellino non ancora sbocciato allorché la falce taglia l'erba sul prato: la similitudine, di altissima intensità lirica, è ispirata all'Eneide di Virgilio, IX, 435-38). Renzo assiste alla scena toccante e trattiene a stento le lacrime, sopraffatto da un'emozione straordinaria, e prima di proseguire il suo viaggio prega Dio di porre presto fine alle sofferenze della donna e della figlia superstite.
L'episodio è ispirato a un fatto realmente accaduto e descritto dal cardinal Borromeo nel De pestilentia (VIII, De miserandis casibus), lo scritto sulla peste del 1630 in cui l'aneddoto è così raccontato: "Essendole morta sotto gli occhi la bambina di nove anni, la madre non volle che le fosse toccata dai monatti: “Voi, disse, passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me”. E, rientrata in casa, stette a contemplare dalla finestra quelle esequie, e poco dopo, morì" (traduzione di C. Angelini, dall'ediz. del 1932 a cura di Agostino Saba). Manzoni aggiunge il particolare patetico dell'altra figlia della donna e dà il nome di Cecilia alla bambina morta, creando un episodio di rara commozione che rappresenta l'unico momento lirico in un capitolo (quello della "traversata" della città sconvolta dall'epidemia da parte di Renzo) dominato da immagini forti e descrizioni assai crude, incluso l'episodio finale del mancato linciaggio del giovane scambiato per un untore e della sua fuga rocambolesca sul carro dei monatti. L'episodio di Cecilia ha ispirato anche molti artisti del Novecento che ne hanno date varie rappresentazioni pittoriche, incluso Renato Guttuso la cui litografia è qui posta come fonte iconografica.
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È l'agiata vedova di un mercante di Milano di circa trent'anni, che durante la peste del 1630 perde in pochi giorni il marito e tutti i figli, ammalandosi poi a sua volta: viene portata al lazzaretto e messa nella stessa capanna in cui è ricoverata Lucia, già in via di guarigione, che ci era arrivata dopo essersi ammalata in casa di don Ferrante. Lucia l'ha assistita nei giorni della malattia e in seguito tra le due è nata un'affettuosa amicizia, tanto che la donna vorrebbe persino tenere con sé la ragazza come una figlia e Lucia stessa la considera quasi una seconda madre. Viene introdotta nel cap. XXXVI, allorché Renzo (venuto a Milano per cercare Lucia) entra nella capanna e ha un drammatico dialogo con la giovane riguardo al voto, cui la mercantessa assiste senza capire nulla. Dopo che Renzo è andato via, Lucia si abbandona a un pianto disperato e racconta tutta la storia alla donna, prima che il giovane torni insieme a padre Cristoforo che scioglierà Lucia dall'obbligo del voto. In seguito la mercantessa si dice pronta a riportare Lucia al suo paese e riaffidarla alla madre Agnese, quando anche lei sarà completamente guarita, e sarà sua intenzione offrire alla giovane sposa il suo corredo, che ormai è per lei del tutto inutile non essendole rimasto più nessuno.
In seguito (cap. XXXVII) Lucia le espone con maggiori dettagli tutte le sue traversie e apprende dalla donna che Gertrude è stata arrestata per ordine del cardinal Borromeo a causa di atroci delitti di cui era sospettata e che ora vive in prigionia, dopo essersi pentita e sottoponendosi a continui supplizi. La vedova accompagna poi Lucia alla casa di don Ferrante e donna Prassede, dove viene informata della morte di entrambi a causa della peste.
Nel cap. XXXVIII la vedova accompagna infine Lucia al paese e si dimostra di carattere socievole e gioviale, tanto che stringe subito amicizia con Agnese e si intrattiene piacevolmente anche con Renzo. Quando don Abbondio accampa nuovi pretesti per rimandare le nozze, la mercantessa accompagna Lucia e Agnese dal curato per fare un altro tentativo e qui apprendono da Renzo della avvenuta morte di don Rodrigo. Si trattiene in seguito a sentire le chiacchiere del sacerdote, che allude ironicamente alla possibilità che la vedova si risposi, anche se lei si schermisce. Accompagna poi gli sposi e don Abbondio al palazzotto di don Rodrigo, dove viene siglata la vendita dei poderi al marchese erede del signorotto e si ferma a pranzo lì, mangiando in un tinello insieme agli sposi e ad Agnese, mentre il marchese e il curato pranzano in un'altra sala. Qualche giorno dopo si separa dagli sposi e da Agnese, per tornare a Milano, quando gli altri tre sono in partenza per il Bergamasco.
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
Compare nel cap. XXIII (pur non ancora nominata) quando il cardinal Borromeo la incarica di andare su una portantina al castello dell'innominato in compagnia di quest'ultimo e di don Abbondio, per confortare Lucia nel momento in cui verrà liberata dal bandito: nel cap. XXIV ci verrà detto che è la moglie del sarto del paese che sorge vicino al castello e viene descritta come una "buona donna", scelta dal curato del villaggio in quanto dotata del coraggio e dell'iniziativa necessari per svolgere un così delicato incarico. Infatti la donna dopo il suo arrivo al castello (XXIV) si adopera per consolare Lucia e la rassicura dicendole che l'innominato "è diventato buono", quindi sale con lei sulla portantina e la accompagna verso il paese; durante il tragitto fa alcuni commenti poco lusinghieri circa don Abbondio, poi informa Lucia dell'identità dell'innominato (la ragazza ha un fremito d'orrore). Più tardi la ospita a casa propria dove fa cuocere nel camino "un buon cappone" e dove, poco dopo, sopraggiungono il marito e i tre figli; dopo la cena la famigliola riceve la visita inaspettata del cardinale, al cui arrivo la donna si presenta "dopo essersi raccomodata alla meglio". Il personaggio compare ancora nel cap. XXIX, quando accoglie nella propria casa don Abbondio, Perpetua e Agnese diretti al castello dell'innominato per trovar rifugio dai lanzichenecchi, i quali si fermano a cena presso la famiglia prima di ripartire alla volta della fortezza. È uno dei personaggi secondari del romanzo, immagine della brava sposa e madre di famiglia pronta a spendersi per gli altri e a offrire il suo aiuto a chi è in difficoltà (come del resto anche il marito, che ospita per qualche giorno Lucia e la madre e apre le porte della sua casa anche a don Abbondio e Perpetua, quando sono in fuga per l'arrivo dei lanzichenecchi).
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
Compare nel cap. XVI ed è la proprietaria di un'osteria lungo la strada che da Milano conduce al Bergamasco, in cui si reca Renzo durante la sua fuga in seguito al tumulto di S. Martino: la donna sta lavorando al telaio e offre al giovane dello stracchino e del vino, anche se Renzo rifiuta di bere perché ancora risente della sbornia patita all'osteria della Luna Piena. In seguito elude le domande della vecchia sui moti di piazza e chiede a sua volta indicazioni su un paese vicino al confine dei due Stati (Renzo finge di non ricordarne il nome e la donna indica Gorgonzola), facendosi spiegare come raggiungerlo seguendo strade secondarie.
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È un'anziana donna che vive nel castello dell'innominato e svolge le mansioni più umili, ricevendo per lo più improperi e beffe da parte dei bravi ai quali lei ribatte con altrettanta malignità: nata e cresciuta in quel luogo, è vissuta nella cieca obbedienza del suo signore e ha sposato uno dei bravi, che in seguito è morto nel corso di un'azione delittuosa e l'ha lasciata vedova nel castello, dove lei ora rattoppa i cenci degli altri sgherri, prepara loro da mangiare, ne cura le ferite. Viene descritta come un "ceffo... deforme", con "il mento appuntato e gli occhi infossati", dunque con un aspetto da vecchia megera che la caratterizza in senso fortemente "comico" e caricaturale: è introdotta alla fine del cap. XX, quando il suo padrone è in attesa della carrozza che trasporta Lucia (che è stata rapita a Monza dal Nibbio e altri bravi) e ordina alla vecchia di allestire una portantina con cui dovrà portare la giovane al castello, raccomandandole inoltre di farle "coraggio". La vecchia mostra di non capire cosa intenda dire l'innominato e questi, irritato, le suggerisce di dire alla ragazza le parole che lei stessa vorrebbe sentire in un simile frangente, quindi la manda via in malo modo. La vecchia esegue gli ordini (XXI) e accoglie Lucia cercando di rassicurarla in modo goffo e sgraziato (continua a ripetere meccanicamente "fatevi coraggio"), ottenendo come risultato quello di inquietarla ancor di più; evita di dire il nome del suo padrone, come lui le aveva raccomandato, limitandosi a definire fortunati "quelli a cui vuol far del bene" e al santo nome di Maria invocato da Lucia ha una strana reazione, come un "vecchione accecato da bambino" che ricordi in modo vago la luce (la donna ha perso ogni riferimento morale, vivendo in mezzo ai delitti e alle scelleratezze).
In seguito conduce Lucia nella sua stanza, come le è stato ordinato dall'innominato, e questi poco dopo bussa alla porta con un calcio, al che la vecchia corre ad aprirgli con "tre salti": l'uomo vede la ragazza rannicchiata a terra in un angolo e rimprovera aspramente la serva, che si giustifica dicendo che "S'è messa dove le è piaciuto" e aggiungendo che lei ha fatto di tutto "per farle coraggio". Il bandito ordina a Lucia di alzarsi e la vecchia cerca nuovamente di rincuorarla in modo piuttosto goffo, mentre la giovane si rivolge all'innominato con fare supplichevole: al termine del colloquio, l'uomo intima con aria severa alla vecchia di fare in modo che Lucia mangi e di metterla a dormire nel letto, mentre lei potrà dormire in terra se la giovane non la vorrà con sé, quindi esce dopo averle ordinato di tenere "allegra" la prigioniera e di far sì che non debba lamentarsi di lei. Rimaste sole, Lucia chiede nuovamente alla donna chi sia quel signore e la vecchia risponde in modo sgarbato che, se parlasse, non le toccherebbero le belle parole che ha sentito lei, malignando poi fra sé sul fatto che le giovani donne "hanno sempre ragione" in quanto commuovono con le lacrime e mettono allegria col riso.
In seguito si raddolcisce e cerca, sempre in modo bizzarro, di rassicurare Lucia ricordandole che l'innominato le ha parlato in modo benevolo e che presto verrà il cibo, che sarà "della roba buona" (chiede anche a Lucia di lasciarle un "cantuccino" nel letto, quando andrà a coricarsi). Lucia non vuole mangiare nulla di ciò che viene poi portato da una donna di nome Marta, nonostante la vecchia lodi la squisitezza delle pietanze, né accetta di mettersi a letto insieme alla serva, che vi si stende stando "sulla sponda" e invitandola a raggiungerla quando le piacerà. La vecchia si addormenta assai presto iniziando a russare sonoramente, mentre la ragazza affronta una veglia angosciosa e disperata che si concluderà con il voto di verginità alla Madonna.
Più tardi, l'innominato in procinto di recarsi dal cardinal Borromeo torna a bussare (XXII) e la vecchia corre ad aprire saltando giù dal letto: il bandito la rimprovera nuovamente vedendo Lucia accucciata in un angolo che dorme e la donna si giustifica dicendo che non ha voluto mangiare né venire a letto. L'uomo dice che Marta verrà nella stanza vicina e ordina alla vecchia di dare a Lucia tutto ciò che lei chiederà, inoltre dovrà dirle al suo risveglio che lui è andato via per poco tempo e tornerà presto, disposto a compiacerla in tutto; rimasta sola, la vecchia è sbalordita e si chiede se Lucia non sia per caso "qualche principessa".
Alcune ore dopo Lucia si sveglia (XXIV) e la vecchia torna a pregarla di mangiare qualcosa, temendo di subire nuovi rimproveri dal padrone al suo ritorno; a un tratto bussano alla porta e la donna apre all'innominato, il quale la fa uscire e la manda insieme a Marta "in una parte lontana del castellaccio", prima di fare entrare nella stanza don Abbondio e la moglie del sarto che nel frattempo hanno raggiunto la fortezza, mandati lì dal cardinale. È questa l'ultima apparizione della vecchia nel romanzo.
Benché sia un personaggio secondario, la vecchia è una delle "macchiette" più riuscite del libro, una figura con tratti comici e grotteschi che rappresenta la cieca obbedienza al male, il gretto egoismo, l'incapacità di comprendere tanto la disperazione di Lucia quanto il dramma interiore dell'innominato che la vista della ragazza gli suscita, al quale pure la donna assiste. Il suo ruolo è quello di fare da carceriera a Lucia e, quindi, svolge una sorta di "contrappunto" bizzarro alla giovane impaurita, specie nel modo meccanico e e pedestre con cui cerca di eseguire gli ordini del padrone (all'inizio continua a ripetere "fatevi coraggio", poi il ritornello cambia diventando "state allegra"); soprattutto, si mostra timorosa di ricevere rimbrotti dall'innominato e di rinunciare alle sue comodità, come la cena di cui spera di avere una parte e, soprattutto, il letto. È accostabile ad altri personaggi del romanzo, come il vecchio mal vissuto o altre figure di popolani che appaiono durante il tumulto di S. Martino, espressione di un'umanità dolente e stravolta dalle brutture vissute.
È citato nel cap. IV, durante il flashback che narra la gioventù di padre Cristoforo e le vicende che lo hanno indotto a farsi frate: il padre di Lodovico è un mercante divenuto molto ricco che a un certo punto della sua vita si ritira dai commerci e inizia a vivere come un nobile, vergognandosi della sua precedente attività, al punto che si adombra quando qualcuno gli ricorda il suo passato (durante un banchetto un convitato si lascia sfuggire la frase "fo l'orecchio del mercante" e ciò è sufficiente a spezzare l'allegria e a far sì che il commensale non riceva più invito alla tavola del padrone di casa). L'autore critica con ironia questo suo atteggiamento, ricordando che "il vendere non è cosa più ridicola che il comprare, e che quella professione di cui allora si vergognava, l’aveva pure esercitata per tant’anni, in presenza del pubblico, e senza rimorso", alludendo al fatto che gli aristocratici disprezzavano tutte le attività produttive che avevano a che fare col denaro. L'uomo alleva l'unico figlio come un nobile e, morendo, gli lascia una considerevole eredità.
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È la protagonista femminile della vicenda, la promessa sposa di Renzo che subisce le molestie di don Rodrigo e le cui nozze vengono impedite dal signorotto: compare per la prima volta alla fine del cap. II, quando Renzo la raggiunge e la informa del mancato matrimonio, dopo aver costretto don Abbondio a parlare circa le minacce ricevute dai bravi. È una giovane di circa vent'anni, unica figlia di una vedova (Agnese) con la quale vive in una casa posta in fondo al paese: ha lunghi capelli bruni ed è dotata di una bellezza modesta, che non giustifica una passione morbosa da parte di don Rodrigo (il quale infatti ha deciso di sedurla per una sciocca scommessa col cugino Attilio) e che spiegherà la delusione dei nuovi compaesani quando i due sposi si trasferiranno nel Bergamasco, alla fine del romanzo. Viene descritta come una ragazza molto pia e devota, ma anche assai timida e pudica sino all'eccesso, tanto che si imbarazza e arrossisce nelle più diverse occasioni: passiva e alquanto priva di spirito di iniziativa, viene trascinata nel tentativo di "matrimonio a sorpresa" dalle minacce di Renzo, che promette in caso contrario di fare una pazzia; in seguito, quando si trova prigioniera nel castello dell'innominato, pronuncia il voto di castità che costituirà un grave ostacolo al ricongiungimento dei due promessi e che verrà sciolto alla fine del romanzo da padre Cristoforo. Quest'ultimo è il confessore di Lucia e la giovane ripone nel frate cappuccino una grande fiducia, tanto che inizialmente rivela solo a lui di essere stata importunata da don Rodrigo. Lucia è il personaggio che forse più di ogni altro ha fede nella Provvidenza divina e anche per questo sembra incapace di serbare ogni minimo rancore, persino nei confronti del suo odioso persecutore (è dunque un personaggio statico, a differenza di Renzo che compie un percorso di maturazione all'interno della vicenda). È anche il personaggio che interagisce con figure di potenti, quali Gertrude, l'innominato, il cardinal Borromeo, don Ferrante e donna Prassede. Il suo nome allude al candore della persona, nonché alla martire siracusana che preferì farsi accecare piuttosto che darsi alla prostituzione, così come il cognome (Mondella) rimanda alla sua purezza e castità. Curiosamente, nel Fermo e Lucia era dapprima indicata col nome di Lucia Zarella (I, 1), quando i bravi intimavano a don Abbondio di non celebrare le nozze, poi la giovane viene chiamata Mondella come nella redazione definitiva (II, 8).
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
Compare nei capp. XXXIII, XXXVII, XXXVIII e viene presentato come un vecchio amico d'infanzia di Renzo, che lo accoglie e gli offre ospitalità quando il giovane torna in paese durante l'epidemia di peste, al fine di cercare Lucia a Milano. Di lui non ci viene fatto il nome e ci viene detto solo che è un giovane più o meno dell'età di Renzo, che abita in una casetta non lontana da quella del filatore e la cui famiglia è stata portata via tutta dal contagio. All'arrivo di Renzo (XXXIII) l'amico non lo riconosce e lo scambia per "Paolin de' morti", il becchino del paese che lo tormenta con continue richieste di aiuto per seppellire le vittime della peste; una volta chiarito l'equivoco, i due scambiano affettuosi saluti e l'amico ospita Renzo nella sua modesta casa, poiché l'abitazione del giovane è in stato di abbandono dopo due anni di assenza e il passaggio dei lanzichenecchi. L'amico offre a Renzo della polenta accompagnata da carne secca, formaggi, fichi e pesche, quindi lo informa di quanto accaduto durante l'assenza del filatore (incluso il fatto che don Rodrigo ha lasciato il paese con la coda tra le gambe, in seguito alla liberazione di Lucia) e soprattutto gli dice il nome del casato di don Ferrante presso la cui casa Lucia è ospite a Milano. Rassicura anche Renzo circa il fatto che non deve temere della giustizia, soprattutto perché il podestà è morto di peste e i pochi birri rimasti hanno altro da pensare che dare la caccia ai ricercati.
Il mattino dopo Renzo parte per Milano alle prime luci dell'alba, dopo aver lasciato il suo fagotto all'amico e aver ricevuto da lui qualcosa da mangiare; gli confida che è sua intenzione cercar Lucia e nel caso questa fosse morta di certo non tornerà più in paese. L'amico lo accompagna per un breve tratto di strada, poi i due si separano.
Quando Renzo poi torna da Milano (XXXVII), dopo aver ritrovato Lucia e padre Cristoforo al lazzaretto, viene nuovamente ospitato dall'amico, a cui racconta quanto gli è accaduto in città e di aver trovato Lucia guarita dalla peste: i due pranzano insieme, quindi Renzo rimane in casa del giovane a rimettersi in sesto dopo l'acquazzone che lo ha inzaccherato sulla strada da Milano al paese. Il giorno dopo Renzo si separa nuovamente dall'amico e si dirige a Pasturo, per informare Agnese di quanto accaduto. Nei giorni seguenti è suo ospite in casa e lo aiuta nei lavori di campagna, anche per sdebitarsi dell'ospitalità. Dopo il ritorno in paese di Lucia e della mercantessa, un giorno Renzo accompagna le due donne per una passeggiata e si recano in visita dall'amico, che viene invitato tutti i giorni a pranzare con loro (XXXVIII).
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
Compare nel cap. XXXIV, durante il secondo viaggio di Renzo a Milano durante la peste, ed è una donna che vede Renzo davanti alla porta della casa di don Ferrante, nel momento in cui il giovane ha appena appreso che Lucia è stata portata al lazzaretto e, disperato, ha afferrato il martello della porta con l'intenzione di bussare ancora. La donna lo scambia per un untore che sta spargendo i suoi unguenti pestiferi sull'uscio e cerca di richiamare l'attenzione di qualche passante, spalancando la bocca come per urlare ma senza emettere un suono, inoltre facendo ampi cenni con le braccia e le mani "grinzose e piegate a guisa d'artigli". Renzo si accorge di lei e la donna inizia a urlare e ad accusarlo di essere un untore, accusa che viene poi assurdamente confermata anche dall'altra donna che ha parlato col giovane poco prima dall'interno della casa. Intorno a Renzo si raccoglie una piccola folla inferocita di popolani intenzionati a linciarlo e solo per un puro caso, oltre che per coraggio e destrezza, il protagonista riuscirà a salvarsi. La donna è descritta dall'autore come una specie di fattucchiera, il cui viso esprime "terrore, odio, impazienza e malizia" e i cui occhi sono "stravolti", volendo rappresentare attraverso di lei la facilità con lui la taccia di untore poteva all'epoca colpire chiunque, sospettato solo perché forestiero o colto in un atteggiamento bizzarro, com'è proprio il caso di Renzo.
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È il potente bandito cui si rivolge don Rodrigo perché faccia rapire Lucia dal convento di Monza in cui è rifugiata, cosa che l'uomo ottiene grazie all'aiuto di Egidio, suo complice e amante della monaca Gertrude: in seguito a una crisi di coscienza e all'incontro decisivo col cardinal Borromeo giunge a un clamoroso pentimento, decidendo così di liberare la ragazza prigioniera nel suo castello e di mandare a monte i piani del signorotto, che dovrà successivamente lasciare il paese e andare a Milano. L'autore non fa mai il suo nome e infatti lo indica sempre col termine "innominato", dichiarando di non aver trovato documenti dell'epoca che lo citino in maniera esplicita, tuttavia la sua figura è chiaramente ispirata al personaggio storico di Francesco Bernardino Visconti, noto bandito vissuto tra XVI e XVII secolo e passato alla storia per la sua vita turbolenta e criminosa, salvo poi convertirsi ad opera proprio del cardinal Federigo. Manzoni conferma tale identificazione in una lettera a Cesare Cantù, dove allude al feudatario di Brignano Ghiaradadda come al personaggio del romanzo (in esso finzione e realtà sono abilmente mescolati, tratto comune a tutte le figure storiche che appaiono nelle vicende).
Viene introdotto a partire dal cap. XVIII, quando don Rodrigo accarezza l'idea di rivolgersi a lui per tentare il rapimento di Lucia dal convento della "Signora" (obiettivo troppo al di fuori della sua portata), mentre la sua storia passata e un dettagliato ritratto del personaggio vengono riportati dall'autore nella seconda parte del cap. XIX, quando il signorotto parte alla volta del suo castello. Come personaggio vero e proprio entra in scena nel cap. XX, allorché accetta da don Rodrigo l'incarico di far rapire Lucia, anche se ci viene mostrato già preda di rimorsi e rimpianti sulla sua vita scellerata che preludono al pentimento e alla conversione dei capp. seguenti. Viene descritto come un uomo di alta statura, bruno, calvo, con pochi capelli ormai bianchi e il volto rugoso che dimostra più dei suoi sessant'anni, anche se il suo contegno e l'atteggiamento risoluto testimoniano una vigoria fisica e un'energia che sarebbero straordinari in un giovane. L'autore lo presenta come un bandito feroce e spietato, che accetta incarichi sanguinosi da mandanti anche prestigiosi e che per questo è circondato da una fama sinistra che incute terrore in tutti quelli che hanno a che fare con lui: i vari signori e tirannelli locali che vivono nel territorio che controlla (una zona a cavallo del confine tra Milanese e Bergamasco, dove è situato il suo castello e dove vive circondato da bravi) devono scendere a patti con l'innominato e diventare suoi amici, dal momento che i pochi che hanno cercato di opporsi sono stati uccisi o costretti ad andarsene. Spesso l'uomo accetta di aiutare degli oppressi vittime delle prepotenze dei nobili, il che lo rende esecutore di quella giustizia che lo Stato corrotto e inefficiente non è in grado di assicurare ai deboli; la sua figura acquista dunque una sorta di imponenza tragica e di grandiosa malvagità che lo rendono uno dei personaggi più interessanti del romanzo, specie se accostato a don Rodrigo che, al suo confronto, appare come un individuo ben più modesto e mediocre, anche perché l'innominato si compiace della sua reputazione famigerata e si propone come un nemico pubblico delle leggi e di ogni autorità costituita, mentre il signorotto ricerca continuamente l'appoggio della giustizia e degli amici potenti, mostrando in più di un caso il timore delle conseguenze delle sue malefatte (per approfondire: L. Russo, Don Rodrigo).
L'intervento dell'innominato nelle vicende del romanzo è del resto decisivo, poiché con la liberazione di Lucia i disegni di don Rodrigo vanno a monte e il bene inizia a prevalere sul male, mentre la sua clamorosa conversione diventa un esempio della misericordia divina che è anche tra le pagine più celebri del romanzo, nonché una vicenda umana di caduta e redenzione simile a quella di altri personaggi manzoniani, soprattutto padre Cristoforo (convertitosi anch'egli dopo essersi macchiato di un omicidio e dopo una giovinezza inquieta in parte simile a quella del bandito). In seguito alla conversione l'innominato tiene con sé solo i bravi che accettano la sua nuova vita, mentre egli va in giro senz'armi e si propone come un difensore di deboli e oppressi, non però con i metodi della violenza usati in passato; gli antichi nemici rinunciano a vendicare i torti subìti per rispetto e perché ancora intimoriti da lui, mentre la pubblica autorità non prende nei suoi riguardi alcun provvedimento, specie perché le sue parentele altolocate ora gli valgono una protezione prima solo accennata. Egli mantiene una corrispondenza col cardinal Borromeo, l'artefice in qualche modo del suo ravvedimento, e fa avere per il suo tramite cento scudi d'oro ad Agnese come risarcimento per il male fatto alla figlia, che la donna accetta e di cui manda la metà a Renzo che nel frattempo si è nascosto nel Bergamasco; in occasione poi della calata dei lanzichenecchi (capp. XXIX-XXX) il suo castello offre un sicuro rifugio alle popolazioni che hanno dovuto lasciare le loro case per evitare i saccheggi, tra cui anche don Abbondio, Perpetua e Agnese, che si trattengono presso di lui poco meno di un mese. In seguito non viene più nominato e ignoriamo dunque in quali circostanze sia avvenuta la sua morte.
Il personaggio era protagonista già del Fermo e Lucia, in cui però era chiamato Conte del Sagrato e dove la sua storia si arricchiva di particolari macabri come quello, celebre, dell'omicidio di un uomo sul sagrato di una chiesa (fatto che dava ragione del suo nome, cfr. il testo): il suo colloquio con don Rodrigo era descritto in modo stucchevole e con molti termini spagnoleggianti usati dal signorotto (cfr. il brano Il Conte del Sagrato e don Rodrigo), mentre nei Promessi sposi il colloquio tra i due è riassunto in un sintetico discorso indiretto, inoltre durante la descrizione del suo pentimento e del suo tormento interiore era inserito il ricordo di un incontro avvenuto, da adolescente, col giovane Federigo Borromeo, che risultava alquanto forzato e di sapore fin troppo "agiografico" (infatti esso è stato eliminato dalla versione definitiva del romanzo). Nella prima redazione, inoltre, la sua morte per la peste veniva ricordata nel capitolo conclusivo del romanzo, mentre nelle successive edizioni non se ne fa cenno (cfr. il brano Il finale della storia).
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
Compare direttamente solo nel cap. VII, durante la "notte degli imbrogli" quando Renzo, Tonio e Gervaso si recano all'osteria del paese in attesa di andare dal curato insieme ad Agnese e Lucia: nel locale vi sono anche due bravi mandati dal Griso, la cui presenza è notata da Renzo che ne chiede conto al padrone della taverna. Questi elude la domanda dicendo che si tratta di galantuomini e in seguito è fin troppo sollecito a fornire ai due sgherri dettagliate informazioni circa Renzo e i suoi amici; tornato dai tre, risponde a Renzo dicendo che quei due sono brave persone perché non fanno storie, pagano il conto senza discutere e, se devono dare una coltellata a qualcuno, lo fanno lontano dall'osteria senza creare fastidi a lui. L'autore osserva ironicamente che l'uomo "faceva professione d’esser molto amico de’ galantuomini... ma, in atto pratico, usava molto maggior compiacenza con quelli che avessero riputazione o sembianza di birboni", lasciando intendere che tale è il comportamento di tutti i gestori di osterie. Il giorno dopo, in seguito alla sparizione dei tre dal paese, l'uomo (cap. XI) dirà di non ricordare neppure se abbia visto qualcuno la sera prima, confermando con altrettanta ironia l'impressione data in precedenza.
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È il padrone della locanda della Luna Piena dove Renzo si reca in compagnia del poliziotto travestito, in seguito ai tumulti del giorno di S. Martino a Milano: compare nei capp. XIV-XV ed è descritto come un uomo "con una faccia pienotta e lucente, con una barbetta folta, rossiccia, e due occhietti chiari e fissi"; nel momento in cui Renzo e il compagno entrano nella taverna (XIV) è seduto accanto alla cappa del camino, intento a rinfocolare la fiamma con le molle, apparentemente distratto ma in realtà attentissimo a tutto ciò che avviene nel suo locale. Il personaggio è molto astuto e accorto, infatti riconosce subito il poliziotto ed è incerto se Renzo sia "cane o lepre", ovvero un poliziotto anche lui o una sua preda; impreca tra sé del fatto che lo sbirro gli capiti tra i piedi proprio in una giornata complicata come quella, senza tuttavia lasciar trasparire alcuna emozione dal suo volto "immobile come un ritratto" (evidentemente l'oste è abituato a dissimulare i suoi pensieri, avendo a che fare con la gente di ogni risma che frequenta il suo locale).
L'oste serve da bere e da mangiare a Renzo e in seguito è obbligato a reggere il gioco al poliziotto, che gli dice che il giovane intende fermarsi a dormire e sa bene che lui dovrà chiedergli il nome e il luogo di provenienza in ossequio a una grida: l'oste lo fa immediatamente e mostra anche una copia della grida a Renzo, che tuttavia rifiuta di dire come si chiama e si lascia andare a imprecazioni contro le leggi e le autorità, attirando l'attenzione di tutti gli altri avventori. L'oste fa chiaramente capire al poliziotto di aver fatto ciò che poteva e mentre si allontana impreca tra sé contro l'ingenuità di Renzo, che si comporta come un "asino" e, oltre a mettere nei guai se stesso, rischia di procurare fastidi anche a lui (l'oste si preoccupa di salvaguardare i suoi affari e di non incorrere nella giustizia in seguito ai torbidi scoppiati in città quel giorno). Alla fine della serata, dopo che il poliziotto si è allontanato, l'oste porta a letto Renzo completamente ubriaco (XV) e, dopo aver inutilmente tentato di estorcergli il nome, lo aiuta a spogliarsi e si preoccupa di farsi pagare il conto, poiché sa bene che il giorno dopo il giovane verrà arrestato e lui rischierà di perdere il suo guadagno. Lascia Renzo addormentato e affida la locanda alla moglie, raccomandandole di osservare una condotta quanto mai cauta, quindi esce e si reca al palazzo di giustizia per rendere la sua deposizione circa la presenza di Renzo nella sua osteria, avendo compreso che il giovane è ormai sospettato di essere uno dei capi della sommossa. Mentre cammina per strada l'oste continua a inveire tra sé contro Renzo, che accusa di essere un ingenuo e di avergli causato guai con l'essere venuto proprio nella sua osteria, rimproverandogli di essere un ignorante e di aver creduto di cambiare il mondo poiché ha visto la folla in tumulto, mentre scoprirà a sue spese che la giustizia è spietata contro i poveri diavoli. Osserva anche che le gride non contano nulla, ma quelle contro gli osti sono fatte rispettare e prevedono pene severissime in termini pecuniari e di galera, quindi non è certo per curiosità se ha chiesto a Renzo il nome e il luogo di provenienza.
Quando giunge al palazzo di giustizia va a rendere la sua testimonianza di fronte a un notaio criminale, lo stesso che il mattino dopo andrà ad arrestare Renzo, e qui scoprirà con sua gran sorpresa che la giustizia sa già il nome del montanaro (il poliziotto è riuscito a farselo rivelare con uno stratagemma). Il notaio lo interroga con fare altero e tracotante, insinuando che l'oste sappia più di quanto dice circa Renzo e i suoi propositi di sedizione, come riguardo al pane che ha portato nella sua osteria, dunque gli raccomanda di sorvegliarlo e di non farlo allontanare dalla locanda, mentre l'uomo risponde con fare manierato e continua a ripetere che non sa nulla e che bada esclusivamente "a far l'oste". Non compare più nel romanzo, neppure quando, il mattino seguente, Renzo sarà tratto in arresto dal notaio e dai due birri che lo accompagnano.
Il personaggio è una delle "macchiette" più riuscite del romanzo, essendo presentato come un astuto gestore di locanda che bada ai propri interessi ed è amico di tutti, ma è anche abile a interagire col poliziotto per amore della quiete e non certo per ossequio alla giustizia: cerca in fondo di aiutare Renzo, maledicendo tuttavia la sua ingenuità e il fatto che, oltre a cacciarsi nei guai, rischia anche di mettergli "sottosopra" l'osteria. La sua figura ha qualche punto di contatto con l'oste del locale del paese dei due promessi (cap. VII), fin troppo sollecito a informare i bravi circa Renzo e i suoi amici mentre aveva risposto in modo evasivo alle domande del giovane sui due sgherri, da lui definiti "galantuomini" (anch'egli in fondo badava ai propri interessi e cercava di scansare i guai, non necessariamente con una condotta limpida). La caratterizzazione del personaggio è in tono con quella dell'osteria come "luogo di perdizione", che infatti ha un ruolo essenziale nel percorso di "formazione" cui va incontro Renzo nelle vicende del romanzo.
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
Compare nel cap. XVI ed è il padrone della locanda di Gorgonzola in cui Renzo entra durante la sua fuga da Milano in seguito al tumulto di S. Martino: il giovane si siede in fondo al tavolo nelle vicinanze della porta, chiedendo di essere servito in fretta in quanto intende ripartire subito. L'oste gli porta da mangiare e una "mezzetta" di vino, quindi Renzo gli chiede con simulata indifferenza quanta sia la distanza di lì all'Adda, il confine naturale con lo Stato di Venezia. L'altro spiega che la distanza rispetto ai punti in cui solitamente i "galantuomini" passano il fiume è di circa sei miglia, suscitando la sorpresa di Renzo che non pensava tanto. Questi vorrebbe chiedere di più, ma teme la curiosità dell'oste e decide di non aggiungere altro, maledicendo tra sé la petulanza dei tavernieri. Poco dopo il giovane paga il conto "senza tirare" ed esce dall'osteria.
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
Compare direttamente solo nel cap. XXI ed è una donna che vive nel castello dell'innominato, addetta probabilmente ai servizi più umili come la vecchia (non è da escludere che anche lei sia moglie o vedova di uno dei bravi del bandito): porta da mangiare a Lucia prigioniera nella camera della vecchia, su ordine dell'innominato, e in seguito (XXII) è incaricata dal padrone di stare nella camera accanto e di non fare entrare nessuno, mentre il bandito si reca dal cardinal Borromeo.
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È un ragazzo di circa dodici anni, imparentato alla lontana con Agnese che lui chiama "zia" (si tratta probabilmente di un titolo generico) e descritto come piuttosto sveglio, molto abile a giocare a "rimbalzello" (ovvero a far rimbalzare un sasso sulla superficie d'acqua del lago). Entra in scena nel cap. VII, quando Agnese lo manda al convento di Pescarenico per parlare con padre Cristoforo (il frate aveva chiesto a Renzo di andare lì per parlare con lui, ma il giovane si era rifiutato perché impegnato nello stratagemma del "matrimonio a sorpresa"); la donna gli raccomanda di aspettare anche tutto il giorno senza distrarsi e gli promette due "parpagliole", ovvero due monete d'argento in cambio del suo servizio, rifiutando di dargliele subito perché, a suo dire, il ragazzo le giocherebbe. Menico esegue la commissione in modo giudizioso e a tarda notte rientra al paese, precipitandosi a casa di Agnese e Lucia per informarle del progettato rapimento che ha saputo da padre Cristoforo (VIII): qui trova il Griso e i bravi che lo aggrediscono e lo minacciano con un coltello, ma il suono delle campane a martello gli consente di divincolarsi e di fuggire. In seguito ritrova Agnese, Renzo e Lucia, a cui racconta quanto è accaduto e riferisce loro che il padre vuole che vadano al convento: il gruppo si mette in marcia, allontanandosi dal paese, poi il ragazzo fornirà più precisi dettagli sull'avviso avuto dal cappuccino e sul rischio corso nella casa delle due donne. I tre lo ringraziano e lo mandano a casa, non prima che Agnese gli abbia dato quattro "parpagliole" e Renzo una berlinga, raccomandandogli di non dire nulla di quanto ha appreso. Nei giorni seguenti (XI) rimane chiuso in casa, poiché i genitori ai quali ha raccontato tutto temono conseguenze per il suo coinvolgimento in un affare di don Rodrigo, ma poi sono essi stessi a raccontare la cosa in giro e a far sì che il Griso possa ricostruire gli avvenimenti della "notte degli imbrogli". Non compare più nel romanzo e ignoriamo quale sia il suo destino durante la peste.
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È uno dei frati cappuccini del convento di Pescarenico, padre confessore di Lucia e impegnato ad aiutare i due promessi contro i soprusi di don Rodrigo, non sempre con successo: è descritto come un uomo di circa sessant'anni, con una lunga barba bianca e un aspetto che reca i segni dell'astinenza e delle privazioni monastiche, anche se conserva qualcosa della passata dignità e fierezza. Viene introdotto nel cap. III, quando Lucia spiega di avergli raccontato in confessione delle molestie di don Rodrigo, e in seguito la giovane chiederà a fra Galdino di avvertire il padre di raggiungere lei e la madre prima possibile. Il personaggio compare direttamente nel cap. IV, attraverso un lungo flashback che racconta la vita precedente di Cristoforo e le circostanze che lo indussero a farsi frate: si chiamava Lodovico ed era figlio di un ricco mercante ritiratosi dagli affari, che viveva come un nobile e aveva allevato il figlio con modi signorili (il cognome del personaggio e la città non sono menzionati dall'anonimo, secondo la finzione dell'autore). Il giovane Lodovico, non accettato dagli aristocratici della sua città, era in cattivi rapporti con loro e a poco a poco era divenuto un difensore di deboli e oppressi, circondandosi di sgherri e bravacci coi quali compiva talvolta azioni inclini alla violenza. In seguito a un duello nato per futili motivi cavallereschi con un nobile noto per la sua prepotenza, Lodovico aveva ucciso il suo avversario ed era rimasto ferito egli stesso (nello scontro era morto un suo fedele servitore di nome Cristoforo); portato dalla folla in un convento di cappuccini per salvarlo dalla giustizia e dalla vendetta dei parenti del morto, Lodovico aveva maturato la decisione di farsi frate e aveva poi chiesto perdono al fratello dell'ucciso, scegliendo come nome quello di Cristoforo per espiare la morte del servitore da lui indirettamente provocata (il nome significa, etimologicamente, "portatore di Cristo"). Tutto questo spiega il fatto che fra Cristoforo conservi qualcosa dell'antico orgoglio nobiliare, nonché la sua abitudine a trattare coi potenti e l'indubbio prestigio che gode fra la gente del paese e delle terre vicine a Pescarenico; il rimorso che prova ancora per l'omicidio commesso lo induce a respingere ogni ipotesi di violenza e a rimproverare aspramente Renzo, ogni qual volta il giovane manifesta propositi vendicativi nei confronti di don Rodrigo.
È dunque con la carità e la fiducia nella Provvidenza che padre Cristoforo tenta di aiutare i due promessi: affronta don Rodrigo nel suo palazzo (V-VI) e tenta dapprima di farlo recedere dai suoi piani con parole diplomatiche, quindi lo attacca con empito oratorio accusandolo delle sue malefatte (il signorotto arriva a proporre che Lucia venga a palazzo e si metta sotto la sua "protezione"). In seguito, dopo la "notte degli imbrogli" e il fallito tentativo da parte di Rodrigo di rapire Lucia (VIII), consiglia ai due promessi di lasciare il paese e indirizza Renzo a Milano, dove dovrà rivolgersi a un suo confratello del convento di Porta Orientale, mentre Agnese e Lucia andranno a Monza e verranno accolte nel convento dove vive Gertrude, a cui sono presentate da un altro padre cappuccino. Entrambi andranno incontro a varie vicissitudini, in quanto Renzo verrà coinvolto nei tumulti del giorno di S. Martino e dovrà fuggire nel Bergamasco (XII ss.), mentre Lucia sarà rapita dai bravi dell'innominato grazie proprio alla complicità di Gertrude, amante di Egidio (XX). Nel frattempo don Rodrigo ottiene, grazie all'intervento del conte zio, che Cristoforo sia trasferito a Rimini, dove il frate si recherà in ossequio al voto di obbedienza, e da qui si porterà a Milano dopo lo scoppio della peste, per accudire gli ammalati nel lazzaretto: in questo luogo di sofferenza ritroverà Renzo che è in cerca di Lucia (XXXV ss.) e alla fine scioglierà il voto di castità che Lucia aveva pronunciato la notte in cui era prigioniera al castello dell'innominato. La notizia della sua morte a causa della peste verrà data a Lucia dagli altri cappuccini del lazzaretto (XXXVII).
Curiosamente, nel Fermo e Lucia era dapprima indicato col nome di padre Galdino (I, 3-4), poi il nome mutava in Cristoforo da Cremona (I, 4) e ciò avvalora l'ipotesi in base alla quale Manzoni si sarebbe ispirato alla figura storica di Cristoforo Picenardi, padre cappuccino originario di Cremona e vissuto agli inizi del XVII secolo, dalla giovinezza alquanto turbolenta (come il Lodovico manzoniano) e che prestò la sua opera di assistenza ai malati nel lazzaretto di Milano, dove morì anch'egli di peste. Il nome di Galdino nella redazione definitiva sarà invece attribuito al laico cercatore delle noci, che nel Fermo si chiamava fra Canziano (e compariva in quell'unico episodio).
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È il frate cappuccino a cui viene affidato il governo del lazzaretto durante la peste del 1630, assieme a padre Michele Pozzobonelli che gli fa da aiutante: personaggio storico (1583-1656), milanese, padre Felice Casati fu per due volte provinciale dell’Ordine e dopo essere scampato all'epidemia (si ammalò di peste e ne guarì) fu inviato nel 1644 a Madrid per ottenere dal re Filippo IV un alleggerimento delle tasse, dal momento che il paese era stremato dalla guerra e dai flagelli. Ciò gli valse molte inimicizie, tanto che fu mandato in Corsica per due anni malgrado le proteste dei suoi concittadini; nel 1656 fu eletto Custode generale e partì a piedi per Roma per partecipare a un'importante riunione, ma giunto a Livorno si ammalò e morì misteriosamente, fatto in cui alcuni vollero vedere la longa manus del governo spagnolo. Fu sepolto nella chiesa dei Cappuccini di quella città.
L'autore lo introduce nel cap. XXXI del romanzo, col dire appunto che a lui il Tribunale di Sanità affida la direzione del lazzaretto cui diventa sempre più arduo provvedere nel dilagare dell'epidemia, incarico che il cappuccino svolge con incredibile solerzia grazie anche all'aiuto di molti confratelli (Manzoni sottolinea i meriti straordinari degli ecclesiastici nel prendersi cura degli ammalati e dei bisognosi durante l'epidemia, spesso supplendo alle mancanze e all'incapacità del potere pubblico). Compare poi come personaggio autonomo nel corso del cap. XXXVI, quando guida la processione dei guariti destinati alla quarantena fuori del lazzaretto, fra i quali Renzo (che si è introdotto lì fortunosamente e vi ha incontrato padre Cristoforo) spera invano di trovare la sua Lucia: il frate rivolge un breve ma sentito discorso ai guariti, che viene attentamente ascoltato da Renzo e che è un raro esempio di oratoria appassionata e piena di sentimento religioso, nel quale invita i guariti a non gioire rumorosamente della loro fortuna e a provare compassione per quelli che restano in quel luogo di sofferenza, ringraziando Dio per la misericordia che è loro toccata. Il "mirabil frate" si avvolge poi una corda intorno al collo, in segno di umiltà, e dopo essersi inginocchiato chiede perdono agli ammalati se talvolta non è stato sollecito nel rispondere alle loro chiamate e a curarli con la necessaria solerzia, parole che suscitano la viva commozione di tutti i presenti, incluso Renzo. Il cappuccino poi si alza, solleva una gran croce e si toglie i sandali, precedendo scalzo il corteo dei guariti che conduce fuori dal lazzaretto, sotto gli occhi attenti di Renzo che non scorge Lucia tra quel gruppo di persone fortunate (egli troverà la ragazza poco dopo dentro una capanna, insieme alla mercantessa).
Attraverso la figura di padre Felice l'autore tratteggia un imponente ritratto di religioso totalmente dedito al prossimo e pronto al sacrificio assoluto di sé, molto simile allo stesso padre Cristoforo e in generale a tutti i cappuccini, fra i quali spiccano l'amore per il prossimo, l'abitudine all'obbedienza, la volontà di servire i poveri (non a caso lo stesso Cristoforo chiede di essere mandato a Milano per occuparsi degli appestati, morendo poi nel lazzaretto come si apprenderà nel cap. XXXVII).
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È il protagonista maschile della vicenda, il promesso sposo di Lucia le cui nozze vengono mandate a monte da don Rodrigo: è descritto come un giovane di circa vent'anni, orfano di entrambi i genitori dall'adolescenza e il cui nome completo è Lorenzo. Esercita la professione di filatore di seta ed è un artigiano assai abile, cosicché il lavoro non gli manca nonostante le difficoltà del mercato (ciò anche grazie alla penuria di operai, emigrati in gran numero nel Veneto); possiede un piccolo podere che sfrutta e lavora egli stesso quando il filatoio è inattivo, per cui si trova in una condizione economica agiata pur non essendo ricco. Compare per la prima volta nel cap. II, quando si reca dal curato la mattina del matrimonio per concertare le nozze: è presentato subito come un giovane onesto e di buona indole, ma piuttosto facile alla collera e impulsivo, con un'aria "di braverìa, comune allora anche agli uomini più quieti"; infatti porta sempre con sé un pugnale e se ne servirà indirettamente per minacciare don Abbondio e costringerlo a rivelare la verità sul conto di don Rodrigo. In seguito progetterà addirittura di assassinare il signorotto, ma abbandonerà subito questi pensieri delittuosi al pensiero di Lucia e dei principi religiosi (anche nel cap. XIII parlerà in difesa del vicario di provvisione, che i rivoltosi vogliono linciare). Il suo carattere irascibile e irruento gli causerà spesso dei guai, specie durante la sommossa a Milano il giorno di S. Martino quando, per ingenuità e leggerezza, verrà scambiato per uno dei capi della rivolta e sfuggirà per miracolo all'arresto; dimostra comunque in più di una circostanza un notevole coraggio, sia durante i disordini citati della sommossa (in cui si adopera per aiutare Ferrer a condurre via il vicario), sia quando torna nel ducato di Milano nonostante la cattura, al tempo della peste (a Milano si introduce nel lazzaretto e in seguito si fingerà un monatto, cosa che gli consentirà di trovare Lucia). È semi-analfabeta, in quanto sa leggere con difficoltà ma è incapace di scrivere, cosa che gli impedirà di diventare factotum alla fabbrica del Bergamasco dove trova lavoro dopo la sua fuga dal Milanese (anche per questo conserva una certa diffidenza per la parola scritta, specie per le gride che non gli hanno minimamente assicurato la giustizia). Rispetto a Lucia si può considerare un personaggio dinamico, in quanto le vicende del romanzo costituiscono per lui un percorso di "formazione" al termine del quale sarà più saggio e maturo (è lui stesso a trarre questa morale nelle pagine conclusive dell'opera). Nel Fermo e Lucia il suo personaggio aveva il nome di Fermo Spolino, mentre il nome Lorenzo era attribuito al sagrestano di don Abbondio, poi chiamato Ambrogio.
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
Compare nel cap. III, quando Renzo va dal dottor Azzecca-garbugli per chiedere un parere legale circa la vicenda del matrimonio: è lei ad accogliere il giovane e a chiedergli con decisione di darle i capponi, che lui vorrebbe consegnare direttamente all'avvocato (lo tratta con una certa durezza, come un contadino poco avvezzo ad aver a che fare coi "signori" di città). Alla fine del colloquio è chiamata dal suo padrone che le ordina di restituire a Renzo i capponi, al che la donna esegue e guarda il giovane come dicesse: "bisogna che tu l’abbia fatta bella", dal momento che non ha mai ricevuto un ordine simile prima d'ora.
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È un amico di Renzo, cui il giovane si rivolge chiedendogli di fargli da testimone nello stratagemma del "matrimonio a sorpresa" (cap. VI): di lui sappiamo che ha moglie e diversi figli piccoli (tre o quattro "ragazzetti"), nonché un fratello di nome Gervaso un po' tardo di mente, i quali sembrano vivere tutti nella stessa casa posta non lontano da quella di Agnese e Lucia nel paese. Renzo si reca qui la sera del 9 novembre 1628 per invitare Tonio all'osteria (VI), cosa che l'amico accetta in quanto è tempo di carestia e la polenta che cuoce sul fuoco è scarsa: Renzo gli propone di dargli le venticinque lire di cui è debitore nei confronti di don Abbondio, per fornirgli un pretesto con cui introdursi nella casa del curato e dare modo ai due promessi di attuare lo stratagemma. Tonio acconsente e così la sera dopo (VII) lui, Renzo e Gervaso vanno a cenare all'osteria, dove sono sorvegliati da alcuni bravi di don Rodrigo; in seguito escono e raggiungono Agnese e Lucia, con cui si recano alla casa di don Abbondio. Mentre Agnese distrae Perpetua, gli altri quattro riescono a intrufolarsi nella casa di don Abbondio (VIII), quindi Tonio restituisce la somma al curato e pretende di riavere la collana della moglie data in garanzia e che gli venga rilasciata una ricevuta. Mentre don Abbondio è impegnato a redigere il dodumento sopraggiungono i due promessi, ma solo Renzo riesce a pronunciare la formula di rito, mentre su Lucia il curato getta il tappeto che copre lo scrittoio e le impedisce di parlare. Il curato lascia cadere il lume a terra, per cui la stanza sprofonda nel buio e il povero Tonio cerca a tastoni sul pavimento la sua preziosa ricevuta; alla fine del parapiglia, lui e gli altri tre si allontanano velocemente dalla canonica. Nei giorni seguenti minaccia più volte il fratello di non dir nulla riguardo ai fatti della "notte degli imbrogli", per paura di conseguenze giudiziarie (XI).
Tonio ricompare nel cap. XXXIII, allorché Renzo torna in paese dal Bergamasco nel pieno della peste: è il primo personaggio che incontra dopo essere giunto nell'abitato, scambiandolo inizialmente per suo fratello Gervaso dal momento che l'uomo, dall'aria inebetita, è seduto per terra appoggiato a una siepe di gelsomini, con solo una camicia addosso. Dopo un po' Renzo lo riconosce e tenta di presentarsi, ma Tonio non sembra in sé e continua a ripetere "A chi la tocca, la tocca", per cui l'altro capisce che la peste ha sfibrato l'amico nella mente oltre che nel corpo.