Capitolo XXXV
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
"Renzo intanto, girando, con una curiosità inquieta, lo sguardo sugli altri oggetti, vide tre o quattro infermi, ne distinse uno da una parte sur una materassa,involtato in un lenzuolo, con una cappa signorile indosso, a guisa di coperta: lo fissò, riconobbe don Rodrigo, e fece un passo indietro; ma il frate, facendogli di nuovo sentir fortemente la mano con cui lo teneva, lo tirò appiè del covile, e, stesavi sopra l'altra mano, accennava col dito l'uomo che vi giaceva..."
CHI?
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È il signorotto del paese di Renzo e Lucia, un aristocratico che vive di rendita e abita in un palazzotto situato a metà strada tra il paese stesso e Pescarenico: personaggio malvagio del romanzo, si incapriccia di Lucia e decide di sedurla in seguito a una scommessa fatta col cugino Attilio, per poi intestardirsi in questo infame proposito al fine di non sfigurare di fronte agli amici nobili e, quindi, per ragioni di puntiglio cavalleresco. A questo scopo manda due bravi a minacciare il curato don Abbondio perché non celebri il matrimonio fra i due promessi (cap. I), e in seguito tenta senza successo di far rapire la ragazza dalla sua casa (VIII); si rivolgerà poi all'innominato per ritentare l'impresa quando la giovane è protetta nel convento di Gertrude, a Monza, ma l'inattesa conversione del bandito manderà a monte i suoi progetti criminosi (XX ss.). Riesce a far allontanare padre Cristoforo da Pescarenico tramite l'intervento del conte zio, che esercita indebite pressioni politiche sul padre provinciale dei cappuccini, e in seguito allo scandalo suscitato dalla conversione dell'innominato lascia il paese per trasferirsi a Milano, dove si ammala di peste e viene ricoverato al lazzaretto. Qui morirà, lasciandoci nel dubbio se si sia ravveduto o meno dei peccati commessi (ottiene comunque il perdono di Renzo, cui il nobile agonizzante viene mostrato da padre Cristoforo).
Viene presentato come un uomo relativamente giovane, con meno di quarant'anni (ci viene detto nel cap. VI, quando è presentato il servitore che informerà padre Cristoforo del progettato rapimento di Lucia) e di lui non c'è una vera e propria descrizione fisica; appartiene a una famiglia di antico blasone, come dimostra l'appartenenza ad essa del conte zio, membro del Consiglio Segreto e politico influente, anche se il nome del casato non viene mai fatto. Non sappiamo molto del suo passato, salvo il fatto che il padre era uomo di tempra ben diversa e Rodrigo, rimasto erede del suo patrimonio, si è dimostrato figlio degenere. Alla fine della vicenda verrà introdotto il suo erede, un marchese che entra in possesso di tutti i suoi beni e che, su suggerimento di don Abbondio, acquisterà le terre di Renzo e Agnese a un prezzo molto alto, per risarcirli dei danni subìti e consentir loro di trasferirsi nel Bergamasco; in seguito fa anche in modo che la cattura che pesa su Renzo venga annullata, dimostrando quindi di essere un galantuomo ben diverso dal suo defunto parente.
Don Rodrigo è ovviamente un malvagio, ma mediocre e di mezza tacca, come più volte è evidenziato nel romanzo: la sua persecuzione ai danni di Lucia non nasce da un'ossessione amorosa, ma è più un atto di prepotenza sessuale di un nobile su una povera contadina, oltretutto a causa di una sciocca scommessa fatta col cugino; egli è il rappresentante di quella aristocrazia oziosa e improduttiva che Manzoni critica spesso e che esercita soprusi sui deboli più per passatempo che per crudeltà gratuita. Compare per la prima volta direttamente solo nel cap. V, dopo che il suo nome è stato più volte evocato e sempre associato a un'aura di terrore, mentre alla sua apparizione il personaggio risulterà assai deludente. Don Rodrigo si mostra timoroso della giustizia e delle leggi, il che lo porta a cercare l'appoggio e la complicità di importanti magistrati come il podestà di Lecco, o di legali come il dottor Azzecca-garbugli, mentre nutre un sincero terrore per tutto ciò che riguarda la religione e l'aldilà, come è evidente nel colloquio con padre Cristoforo nel cap. VI (la frase "Verrà un giorno..." pronunciata dal cappuccino col dito puntato scatena la sua ira e tale gesto ricorrerà nel sogno del cap. XXXIII, quando il nobile si scoprirà ammalato di peste). La piccolezza morale del personaggio è sottolineata nella scena del cap. XI, quando il signorotto attende con impazienza il ritorno dei bravi inviati a rapire Lucia e pensa tra sé alle possibili conseguenze di quell'atto scellerato (soprattutto, pensa alla protezione che l'amico podestà e il nome della famiglia potranno assicurargli) e la sua grettezza emergerà poi nel confronto con l'innominato, personaggio che dimostra una notevole statura morale tanto nella malvagità quanto nel successivo ravvedimento (per approfondire: L. Russo, Don Rodrigo uomo senza originalità e grandezza).
Nel Fermo e Lucia la fine del personaggio era decisamente diversa, poiché Rodrigo (moribondo per la peste e in preda al delirio) balzava su un cavallo dopo aver visto Lucia e lo spronava al galoppo, cadendo rovinosamente e morendo così sicuramente in disgrazia (nei Promessi Sposi, invece, la notizia della sua morte giunge al paese solo nel cap. XXXVIII; si veda il brano La morte di don Rodrigo).
DOVE?
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È il recinto di forma rettangolare posto esternamente alle mura di Milano, vicino a Porta Orientale, destinato al ricovero degli appestati durante l'epidemia di peste del 1630: il luogo è presentato per la prima volta nel cap. XI, quando Renzo giunge a Milano dopo aver lasciato il paese in seguito al fallito tentativo di rapimento di Lucia, indirizzato da padre Cristoforo al convento dei cappuccini di Porta Orientale (l'edificio è descritto come una "fabbrica lunga e bassa" che costeggia le mura della città e il giovane, seguendo le indicazioni di un passante, percorre il fossato che lo circonda arrivando ben presto a Porta Orientale). Il nome "lazzaretto" è collegato al lebbroso Lazzaro della parabola evangelica del ricco epulone (Luca, XVI, 19-31), con probabile influenza anche dell'episodio della resurrezione di Lazzaro di Betania ad opera di Gesù (Giov., XI), anche se il termine propriamente deriva dalla storpiatura del nome dell'isola veneziana di S. Maria di Nazareth, che veniva detta Nazarethum ed era destinata al ricovero di malati contagiosi provenienti dalla Terrasanta (Manzoni usa nel romanzo la forma lazzeretto, in uso nell'italiano dell'epoca). A Milano il lazzaretto era originariamente destinato al ricovero e alla quarantena dei malati di peste, diventando poi sinonimo di luogo in cui venivano curate malattie infettive e contagiose, nonché, per estensione, di spazio pieno di miserie e squallore indicibile. Il lazzaretto è uno spazio narrativo autonomo rispetto al resto della città di Milano e viene descritto in due momenti salienti della vicenda, all'epoca della carestia (XXVIII) e della peste (XXXI ss.).
QUANDO?
RIASSUNTO
TEMI PRINCIPALI TRATTATI NEL CAPITOLO
Come già nel cap. XXXIV, anche qui il protagonista è Renzo, impegnato nella ricerca di Lucia all'interno del lazzaretto tra gli appestati: rispetto al capitolo precedente, l'autore rinuncia esplicitamente a fornire una descrizione dettagliata delle miserie e delle sofferenze raccolte all'interno, limitandosi a pochi rapidi cenni tra cui il recinto con i bambini e le balie (il romanziere aveva già accennato al dramma degli orfani rimasti senza i genitori nel cap. XXXII). Il percorso di ravvedimento morale e di maturazione di Renzo ha termine proprio in questo episodio, attraverso l'incontro con padre Cristoforo e don Rodrigo (sul punto si veda oltre).
L'atmosfera cupa e soffocante descritta in apertura accresce l'inquietudine che accompagna l'incerta ricerca di Renzo, riprendendo quando già detto nel cap. precedente: si ha il quadro di una natura malata, in preda alla desolazione, dove nella calura opprimente tutto è immobile e suggerisce quasi un senso di morte (qualcosa di simile si aveva anche nei capp. iniziali, con la presentazione dei guasti della carestia). Più di un critico, tra cui I. Calvino, ha osservato come spesso nel romanzo la natura viene mostrata in preda a forze oscure e distanti da ogni consolazione religiosa, come in un mondo privo di Provvidenza.
Renzo ritrova nel lazzaretto padre Cristoforo, che torna nelle vicende dopo che era stato trasferito a Rimini per i maneggi del conte Attilio (cap. XIX): apprendiamo ora che il conte zio è morto (forse di peste, ma non viene detto in modo esplicito) e allo scoppiare dell'epidemia il frate ha chiesto di essere inviato a Milano per accudire i malati, richiesta che è stata accolta facilmente. Il cappuccino appare spossato nel fisico e nel cap. XXXVI Renzo dirà a Lucia che probabilmente ha contratto la malattia, di cui infatti morirà (la notizia sarà appresa dalla stessa Lucia nel cap. XXXVII).
La processione dei guariti fra cui Renzo dovrà cercare Lucia è preannunciata da rintocchi di campana provenienti dalla cappella centrale ed è interessante osservare come il suono delle campane accompagni Renzo durante vari episodi del romanzo: la "notte degli imbrogli", mentre lascia il paese dopo il fallito matrimonio a sorpresa, sente il lugubre rintocco delle campane a martello (cap. VIII) e tale suono gli rimbomba nella mente tra i fumi dell'alcool all'osteria della Luna Piena (XIV), ripensandoci anche al suo ritorno in paese, dopo lo scoppio della peste (cap. XXXIII); persino la notte insonne trascorsa nel capanno durante la sua fuga (XVII) è scandita dai rintocchi di un vicino campanile, forse quello di Trezzo d'Adda. Qui nel lazzaretto il suono è altrettanto inquietante e infatti la ricerca di Lucia fra i guariti sarà infruttuosa, costringendo Renzo a introdursi nel quartiere delle donne. Curiosamente, non si fa cenno di campane a festa il giorno in cui finalmente le nozze verranno celebrate, nel cap. XXXVIII.
Il frate, quando Renzo manifesta i suoi propositi di vendetta contro don Rodrigo, gli rammenta il motivo per cui ha indossato la tonaca e il riferimento è ovviamente al duello sanguinoso in cui aveva ucciso un nobile prepotente, narrato nel flashback del cap. IV e volgarmente accennato anche dallo stesso Rodrigo al suo palazzotto (cap. V). Renzo mostra di esserne a conoscenza e ciò influirà non poco nella sua decisione di perdonare realmente il suo persecutore (nel cap. seguente il frate donerà a lui e Lucia il "pane del perdono", donatogli a sua volta dal fratello dell'uomo ucciso trent'anni prima).
L'apparizione di don Rodrigo agonizzante e prossimo alla morte per la peste è il momento di maggior tensione narrativa e si colloca infatti proprio alla fine, dopo che il personaggio è stato più volte evocato nel corso del capitolo: era lui, infatti, il malato per il quale fra Cristoforo si raccomandava con padre Vittore, nel caso avesse ripreso lucidità, e ancora lui veniva chiamato in causa da Renzo in preda all'ira, quando manifestava il proposito di assassinarlo per vendetta (cosa che aveva fatto altre volte, come nei capp. II e VII). Il signorotto viene mostrato come un povero corpo prostrato dalla malattia, misero, con un volto contratto come nella morte e le dita nere; la cappa nobiliare che usa come una coperta crea un voluto contrasto con lo squallore della capanna e del giaciglio in cui è disteso, ricordando che la malattia rende tutti uguali e annulla le distinzioni sociali. È questo l'unico incontro tra lui e Renzo nel romanzo ed è significativo che ciò avvenga quando il nobile è ormai ai piedi del suo "rivale", che tuttavia rinuncia a ogni proposito vendicativo e prega per lui perdonandolo (si veda oltre). È stato osservato che questa è anche l'unica vera descrizione di un appestato in tutta la narrazione, per cui è interessante che essa sia riservata proprio all'oppressore e al malvagio della storia.
Nel Fermo e Lucia la morte di don Rodrigo veniva mostrata nel lazzaretto (IV, 9), allorché l'appestato in preda al delirio, dopo aver visto i due promessi e padre Cristoforo, saliva in groppa a un cavallo e partiva al galoppo, vanamente inseguito dai monatti; in seguito questi porteranno indietro il suo cadavere, dicendo che è stramazzato a terra morto (dunque il signorotto moriva certamente in disgrazia e senza essersi pentito delle sue malefatte). Nella prima redazione del romanzo, inoltre, era del tutto assente la scena in cui fra Cristoforo mostrava il nobile in agonia esortando il perdono di Renzo, che diventerà invece il "pezzo forte" del cap. XXXV dei Promessi sposi (si veda il brano La morte di don Rodrigo).
TRAMA
GLOSSARIO
Allievo: bambino da allattare
Allogata: alloggiata
Ben rifinito: esausto
Compreso: commosso, partecipe
Cordialmente: con tutto il cuore
Covile: giaciglio
Forma: aspetto
Gli seguì: gli accadde
Gridando: chiamando
Incombenza: incarico
Ninnandolo: cullandolo
Poltrone: fannullone
Proteste: promesse
Secolari: laici
Spera: sfera
Straniero: estraneo
Topponi: coperte di pezze
Tramenio: confuso andirivieni
DOMANDE SULLA COMPRENSIONE DEL CAPITOLO:
1) «Già aveva il giovane girato un bel pezzo... per guardare ancora un momento»: leggi il bellissimo passo di questo «spedale d’innocenti» e commentalo.
2) «L’occhio soltanto era quello di prima... e più splendido»: di chi si parla e cosa c’è di cambiato nel personaggio?
3) «Credi tu che se ci fosse una buona ragione io non l’avrei trovata in trent’anni?» perché padre Cristoforo pronuncia queste parole e a quale episodio allude?
4) «Benedicilo e sei benedetto»: perché e a chi sono rivolte queste parole di padre Cristoforo? Puoi capire il comportamento di Renzo?