Capitolo XXXIV
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
"Vistosi così tra due fuochi, gli venne in mente che ciò che era di terrore a coloro, poteva essere a lui di salvezza; pensò che non era tempo di far lo schizzinoso; rimise il coltellaccio nel fodero, si tirò da una parte, prese la rincorsa verso i carri, passò il primo, e adocchiò nel secondo un buono spazio voto. Prende la mira, spicca un salto; è su, piantato sul piede destro, col sinistro in aria, e con le braccia alzate..."
CHI?
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
Erano gli addetti che durante l'epidemia di peste a Milano nel 1630 avevano il compito di raccogliere i cadaveri dalle strade o dalle case e portarli alle fosse comuni, oppure di trasportare i malati al lazzaretto e di bruciare panni e cenci infetti: storicamente i monatti furono al servizio del Tribunale di Sanità e venivano reclutati fra uomini che non avevano molto da temere dal contagio, o perché già colpiti dal morbo e perciò immuni, o più spesso in quanto si trattava di criminali di pochi scrupoli, attratti dal salario e dalla prospettiva di arricchirsi depredando i morti e i malati. Vengono citati nel cap. XXXII dedicato alla peste e l'autore propone varie etimologie del loro nome, nessuna davvero convincente (dal greco monos, secondo la congettura del Ripamonti, dal latino monere, oppure come storpiatura del tedesco monathlich, "mensuale", con allusione al fatto che essi venivano reclutati mese per mese); è più probabile che il termine derivi dal milanese monàt, "monaco", come alterazione del significato originario nel senso di "affossatore", "becchino" (la questione è tuttora aperta). A Milano i monatti indossavano vistosi abiti rossi che li rendevano immediatamente riconoscibili e portavano al piede un campanello che segnalava la loro presenza, essendo tra l'altro sottoposti al rigido controllo dei commissari di Sanità e dei nobili durante l'esercizio dei loro compiti. Tuttavia l'infuriare del contagio e il numero sempre crescente di malati e di morti accrebbe la loro importanza e, venendo meno chi potesse sorvegliarli, a un certo punto diventarono i padroni delle strade, approfittando del loro ruolo per arricchirsi senza scrupoli: l'autore ricorda che essi depredavano le case dei malati, estorcevano denaro ai sani per non condurli al lazzaretto, arrivavano al punto di diffondere ad arte il contagio per prolungare l'epidemia in quanto loro fonte di guadagno, circondandosi in tal modo di una fama atroce e sinistra. Coerente con tale presentazione è la loro prima diretta apparizione nel cap. XXXIII, quando due di loro vanno a casa di don Rodrigo ammalato di peste per derubarlo e portarlo al lazzaretto, d'accordo col Griso che lo ha tradito: vengono descritti come "due logori e sudici vestiti rossi, due facce scomunicate" e si dimostrano lesti a gettarsi sul nobile che ha afferrato una pistola e a disarmarlo; mentre uno lo tiene fermo, l'altro collabora col Griso a scassinare uno scrigno contenente del denaro, quindi i due monatti caricano don Rodrigo esanime su una barella e lo portano via di peso.
Anche Renzo incontra varie figure di monatti quando attraversa la città sconvolta dalla peste, per recarsi a casa di don Ferrante dove spera di trovare Lucia (XXXIV): in una strada vede quattro grandi carri con i monatti che si affaccendano tutt'intorno, portando cadaveri fuori dalle case e caricandoli sui carri, alcuni con la divisa rossa e altri che indossano pennacchi multicolori come in segno di scherno nel lutto della pestilenza; poco oltre assiste al commovente episodio della madre di Cecilia, una bimba morta di peste che la donna consegna a un "turpe monatto" dandogli del denaro perché deponga il piccolo corpo nella fossa senza spogliarlo, cosa che l'uomo promette di fare colto da una singolare commozione; più avanti vede un gruppo di malati condotti al lazzaretto tra spinte e insulti e chiede a uno dei monatti indicazioni per raggiungere la casa di don Ferrante, sentendosi rispondere in malo modo. Quando ha finalmente raggiunto l'abitazione del gentiluomo viene scambiato per un untore e si salva dal furore della folla saltando su un carro di cadaveri, dove i monatti sono ben lieti di offrirgli protezione: gli dicono con ironia che sotto la loro tutela è sicuro come "in chiesa", quindi uno di loro afferra un cencio da uno dei cadaveri e fa il gesto di scagliarlo sulla folla, che si disperde in tutta fretta per l'orrore. In seguito i monatti sul carro si complimentano con Renzo che credono davvero un untore e al quale dicono, tra le risa di scherno, che fa bene a "ungere" la città: gli offrono da bere del vino da un fiasco (che il giovane rifiuta cortesemente) e uno dei monatti si rivolge in modo macabro e beffardo a uno dei cadaveri, che indica come il padrone del vino e al quale rivolge un grottesco brindisi; il fiasco passa poi di mano in mano, finché resta vuoto e uno dei figuri lo sfascia con un lancio sulla strada gridando "Viva la morìa!". Il carro prosegue il suo viaggio mentre i monatti intonano una canzonaccia, e quando raggiungono il lazzaretto Renzo è lesto a ringraziare i suoi salvatori e ad allontanarsi, mentre uno dei monatti lo chiama "povero untorello" e osserva ironicamente che non sarà lui a spopolare Milano (ai loro occhi gli untori sono benemeriti, perché spargono il contagio che assicura loro il guadagno).
All'interno del lazzaretto Renzo, introdottosi nel quartiere delle donne, indossa un campanello al piede per fingersi un monatto (XXXVI) ed è successivamente apostrofato da un commissario di Sanità che gli ordina di recarsi in una delle capanne dove è richiesto il suo intervento: il giovane si allontana e si china per togliersi il contrassegno, avvicinandosi a una capanna da cui poi sente provenire le voci di Lucia e della mercantessa. Alla fine del romanzo (XXXVIII), nel trarre la morale delle vicissitudini affrontate nella sua vita, Renzo dirà di aver imparato tra le altre cose a non attaccarsi "un campanello al piede", in ricordo di quanto aveva fatto appunto al lazzaretto.
DOVE?
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È la principale città lombarda del XVII secolo e la sede del governo spagnolo dell'epoca, nonché la capitale dell'omonimo Ducato e uno dei principali centri dell'Italia settentrionale: rappresenta l'unica reale ambientazione urbana di cui l'autore fornisca una descrizione diretta e dettagliata nel corso del romanzo, in cui essa è lo scenario di due importanti episodi narrativi (il primo viaggio di Renzo, in occasione del tumulto per il pane dell'11 novembre 1628, e il secondo viaggio quando la città è sconvolta dalla peste del 1630). Milano è mostrata come una una grande città caotica e tumultuosa, malsana, dominata da una folla disordinata e violenta che si contrappone alla pacifica e quieta popolazione contadina dei piccoli centri (il Bergamasco, il paese dei due promessi...), in accordo con la visione manzoniana che privilegia le ambientazioni rurali e rappresenta quelle cittadine come negative e piene di vizi morali. Non a caso sarà soprattutto Renzo ad essere protagonista di varie "disavventure" nelle strade della metropoli, all'interno di un percorso morale che sarà occasione per lui di crescita umana e di "formazione" (specie in occasione del secondo viaggio, in cui l'attraversamento della città flagellata dalla peste appare quasi come una "discesa agli inferi"), mentre Lucia, pur essendo presente come personaggio in questo spazio narrativo, non vi viene quasi mai mostrata se non all'interno della casa di donna Prassede e don Ferrante, oppure nel lazzaretto che costituisce una sorta di universo separato e in certo modo indipendente dalla realtà cittadina in cui pure è inserito. Fanno parte dell'ambientazione milanese anche il forno delle Grucce e l'osteria della Luna Piena, per cui si rimanda alle rispettive voci.
È quasi inutile sottolineare che Milano riveste grande importanza nell'economia narrativa del romanzo e molte pagine sono dedicate alla sua descrizione, sia per l'effettiva importanza della città fin dai tempi più antichi, sia in quanto luogo in cui l'autore è nato e ha trascorso quasi la sua intera vita, per cui la conoscenza che Manzoni ha di tale ambientazione riflette la sua personale esperienza (la stessa cosa, del resto, può dirsi per tutti gli altri luoghi del romanzo, non a caso posti anch'essi in Lombardia). Lo scrittore ricostruisce l'ambiente della Milano del Seicento basandosi sulle testimonianze degli storici dell'epoca, che egli consulta scrupolosamente e non manca di citare all'occasione.
QUANDO?
RIASSUNTO
TEMI PRINCIPALI TRATTATI NEL CAPITOLO
Protagonista assoluto del capitolo è Renzo, che torna a Milano due anni dopo il suo primo viaggio in città e affronta una serie di "prove" per scoprire il destino di Lucia, che apprenderà essere ammalata al lazzaretto. La città anche in questo caso appare sconvolta e in preda al disordine, non più a causa del tumulto popolare ma dell'epidemia di peste, rappresentando come nel precedente episodio uno spazio ricco di insidie per il campagnolo Renzo (sul punto si veda oltre). Il giovane è l'unico tra i personaggi principali a comparire in questo capitolo, in cui l'autore mostra da vicino e con una serie di quadri narrativi le miserie della peste che ha descritto in modo più oggettivo nella digressione dei capp. XXXI-XXXII.
La parte iniziale è dominata dalla descrizione del tempo atmosferico, cupo e opprimente a causa delle nuvole che coprono il cielo e della mancanza di pioggia, particolari che accrescono l'angoscia di Renzo e creano una sottile inquietudine anche nel lettore. Il cielo plumbeo farà da sfondo anche ai capp. nel lazzaretto e la pioggia cadrà solo alla fine del XXXVI, preannunciando in certo quel modo la fine dell'epidemia.
Il passante che scambia Renzo per un untore anticipa ciò che accadrà al giovane nell'ultima parte del capitolo, quando la donna in strada lo additerà alla folla come uno degli scellerati che spargono la peste a Milano: il primo è un uomo qualunque che diffida di tutti gli stranieri che incontra, la donna viene invece descritta come una vera e propria fattucchiera, con il viso e lo sguardo stravolto, le mani "grinzose e piegate a guisa d'artigli". Manzoni sottolinea la facilità con cui nella Milano della peste si poteva essere tacciati d'essere untori e il linciaggio cui miracolosamente sfugge Renzo è simile agli episodi reali già descritti nel cap. XXXII. L'ironia atroce è che i monatti che salvano Renzo lo scambiano essi pure per un untore, ma si congratulano con lui e lo incitano a diffondere l'epidemia, dalla quale ovviamente ricavano vantaggi e che hanno tutto l'interesse a far continuare (gli stessi monatti venivano accusati di essere untori).
L'episodio della donna sequestrata in casa dai commissari ha una valenza simbolica, poiché Renzo le regala i due pani acquistati il giorno prima e pensa in tal modo di aver riparato alla mancata restituzione di quelli raccolti in occasione del suo primo viaggio a Milano, durante il tumulto. Il gesto di Renzo è parte del suo percorso di formazione e maturazione che si completa in questi capitoli, in quanto il giovane non è più animato da sentimenti di rabbia come nei capp. XII-XIII, ma agisce in modo misericordioso.
Il capitolo è ovviamente una lunga serie di quadri descrittivi che aprono squarci sulla triste condizione della città spopolata dalla peste ed è un alternarsi continuo di comportamenti bestiali e atteggiamenti caritatevoli, mentre ciò che spicca è l'alterazione del tessuto sociale e il venir meno dei normali rapporti umani a causa della malattia, della diffidenza reciproca e della paura degli untori (la narrazione ha in parte come modello il Decameron di G. Boccaccio). Manzoni tocca qui forse i momenti più riusciti della sua arte di romanziere, come quando descrive i morti sul carro, il comportamento bieco e irriverente dei monatti, lo squallore delle strade cosparse di cadaveri gettati persino dalle finestre, la condotta dei malati al lazzaretto, senza dimenticare l'episodio della madre di Cecilia rimasto giustamente famoso (si veda sotto).
L'episodio della donna che depone il corpicino della figlia Cecilia sul carro dei morti è uno dei più famosi del romanzo e rappresenta un momento lirico di altissimo valore artistico, giustamente celebrato dai principali critici della nostra letteratura: la pagina si ispira a un aneddoto realmente accaduto e narrato dal cardinal Borromeo nella sua opera De pestilentia, da cui Manzoni trae i punti essenziali senza alterare quasi nulla e aggiungendo solo il nome della bambina, assente nella fonte. La descrizione finale della donna che attende la morte insieme alla figlia superstite introduce una similitudine ("come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato") che ricorda quella usata da Virgilio nell'Eneide (IX, 435-38) per narrare la tragica morte in battaglia di Eurialo, l'amico di Niso ucciso da Volcente: Purpureus veluti cum flos succisus aratro / languescit moriens, lassove papavera collo / demisere caput, pluvia cum forte gravantur ("Come quando un fiore purpureo, tagliato dall'aratro, illanguidisce morendo, o i papaveri abbassano il capo sul loro stelo delicato quando sono fiaccati dalla pioggia"). Per approfondire: C. Angelini, L'episodio di Cecilia.
Il carro dei monatti conduce Renzo nei pressi del lazzaretto, vicino a Porta Orientale dove già era passato due anni prima: il giovane passa anche di fronte al convento dei cappuccini dove avrebbe dovuto consegnare la lettera a padre Bonaventura (XI) e dove aveva poi pensato di rifugiarsi durante la sua fuga rocambolesca (XVI), salvo poi decidere di darsi alla macchia. Il particolare contribuisce a suggerire al lettore un senso di déja-vu, essendo molte le analogie tra questo viaggio di Renzo e il precedente (si veda oltre).
La descrizione delle miserie del lazzaretto trova una ricca anticipazione nella parte finale di questo capitolo, in cui l'autore mostra un saggio di tutto ciò che verrà poi mostrato all'interno: è una lunga galleria di personaggi stravolti e dal comportamento insensato, tra cui spiccano l'appestato che guarda "in qua e in là con un visino ridente, come se assistesse a un lieto spettacolo" e quello che canta un'allegra canzone contadinesca in fondo al fossato. Il forsennato che corre sul cavallo al galoppo, invece, ricorda la fine di don Rodrigo al lazzaretto nel Fermo e Lucia, dove infatti tale particolare mancava nella descrizione dell'esterno del lazzaretto (la quale, per inciso, era decisamente inferiore sul piano artistico).
TRAMA
GLOSSARIO
Abbattuto: imbattuto
Argento vivo: mercurio
Avviato: incamminato
Baluardo: bastione
Costumavan: avevano l'abitudine
Crociata: incrocio
Fellonesco: malvagio, traditore
Fremente: agitato
Frenetici: pazzi
Gravezza: pesantezza
Gualchiere: presse per tessuti
Impedimento: ostacolo
In boccia: non ancora sbocciato
Malizia: cattiveria, sospetto
Meschine: povere
Nocchiuto: con le nocche sporgenti
Noderoso: nodoso
Ombroso: sospettoso
Omero: spalla
Passione: dolore
Pigionali: inquilini
Polizza: biglietto
Procelloso: tumultuoso
Punzone: pugno
Risicare: rischiare
Sbrigarsi: allontanarsi
Senza sentimento: priva di sensi
Spianti: distruggi
Stracco: stanco
Strame ammorbato: paglia infetta
Tramortito: moribondo
Tratto speciale: favore particolare
Treno: fila di carri
Un pianeta: destino sfavorevole, sfortuna
Venire in acconcio: tornare utile
Villanelle: canzoni popolari
DOMANDE SULLA COMPRENSIONE DEL CAPITOLO:
1) A chi vengono paragonati i cadaveri ammucchiati sul carro dei monatti? Ti sembra efficace l’intera descrizione?
2) «Renzo s’abbatteva appunto... nel vedere quanto quei viventi fossero ridotti a pochi»: l’intero brano descrive la desolazione in cui è caduta la città in seguito alla peste: quali sono gli atteggiamenti umani che più ti colpiscono, perché?
3) «Scendeva dalla soglia... hanno patito abbastanza»: leggi con attenzione il famoso episodio della madre di Cecilia e commentalo ponendo anche in risalto il comportamento del monatto.
4) «Andò avanti... cura di loro per farli guarire» leggi con attenzione il passo e commenta i diversi comportamenti umani di fronte al dolore.
5) Quante volte, in questo capitolo, Renzo viene scambiato per un untore: riassumi.