Capitolo XXIX

illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840

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"Chi non ha visto don Abbondio, il giorno che si sparsero tutte in una volta le notizie della calata dell'esercito, del suo avvicinarsi e de' suoi portamenti, non sa bene cosa sia impiccio e spavento. Vengono; son trenta, son quaranta, son cinquantamila; son diavoli, sono ariani, sono anticristi; hanno saccheggiato Cortenuova; han dato fuoco a Primaluna: devastano Introbbio, Pasturo, Barsio; sono arrivati a Balabbio; domani son qui: tali eran le voci che passavan di bocca in bocca; e insieme un correre, un fermarsi a vicenda, un consultare tumultuoso, un'esitazione tra il fuggire e il restare, un radunarsi di donne, un metter le mani ne' capelli..."

CHI?

Agnese

illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840

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È la madre di Lucia, un'anziana vedova che vive con l'unica figlia in una casa posta in fondo al paese: di lei non c'è una descrizione fisica, ma è presentata come una donna avanti negli anni, molto attaccata a Lucia per quale "si sarebbe... buttata nel fuoco", così come è sinceramente affezionata a Renzo che considera quasi come un secondo figlio. Viene introdotta alla fine del cap. II, quando Renzo informa Lucia del fatto che le nozze sono andate a monte, e in seguito viene descritta come una donna alquanto energica, dalla pronta risposta salace e alquanto incline al pettegolezzo (in questo non molto diversa da Perpetua). Rispetto a Lucia dimostra più spirito d'iniziativa, poiché è lei a consigliare a Renzo di rivolgersi all'Azzecca-garbugli (III), poi propone lo stratagemma del "matrimonio a sorpresa" (VI) e in seguito invita don Abbondio e Perpetua a rifugiarsi nel castello dell'innominato per sfuggire ai lanzichenecchi (XXIX). È piuttosto economa e alquanto attaccata al denaro, se non proprio avara, come si vede quando rimprovera Lucia di aver dato troppe noci a fra Galdino (III) e nella cura che dimostra nel custodire il denaro avuto in dono dall'innominato. A differenza dei due promessi sposi non si ammala di peste (ci viene detto nel cap. XXXVII) e, dopo il matrimonio, si trasferisce con Renzo e Lucia nel Bergamasco, dove vive con loro ancora vari anni. Del defunto marito e padre di Lucia non viene mai fatta parola e, curiosamente, il fatto che Agnese sia vedova viene menzionato solo nel cap. XXXVII, quando la donna torna al paese e trova la casa quasi intatta dopo il periodo della peste (il narratore osserva che "questa volta, trattandosi d’una povera vedova e d’una povera fanciulla, avevan fatto la guardia gli angioli").

DOVE?

Il castello dell'innominato

illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840

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È l'inespugnabile fortezza in cui vive e opera l'innominato, situata in un punto imprecisato lungo il confine tra il Milanese e il Bergamasco e distante non più di sette miglia dal palazzotto di don Rodrigo: il luogo è descritto all'inizio del cap. XX, quando il signorotto vi si reca per chiedere l'aiuto del potente bandito nel rapimento di Lucia e fin dall'inizio si presenta come un castello truce e sinistro, specchio fedele della personalità del signore che vi risiede. Infatti sorge in cima a un'erta collina al centro di una valle "angusta e uggiosa" che è a cavallo del confine dei due stati, accessibile solo attraverso un sentiero tortuoso che si inerpica verso l'alto e che è dominato dagli occupanti del castello, che sono dunque al riparo dall'assalto di qualunque nemico; il castello è come un nido di aquile in cui l'innominato non ha nessuno al di sopra di sé e da dove può dominare anche fisicamente su tutto il territorio circostante, di cui egli è considerato l'assoluto padrone (i pochi birri che si sono avventurati lì sono stati uccisi e nessuno oserebbe addentrarvisi senza essere amico del bandito).

All'inizio del sentiero che conduce in alto c'è un'osteria che funge da corpo di guardia, la quale, a dispetto dell'insegna che mostra un sole splendente, è nota come la Malanotte e in cui stazionano bravi dell'innominato armati fino ai denti: qui si ferma don Rodrigo quando giunge insieme ai suoi sgherri e viene precisato che nessuno può salire al castello armato, per cui il signorotto deve consegnare ai bravi il suo schioppo. In seguito viene accompagnato all'interno della fortezza e percorre una serie di oscuri corridoi, con bravi di guardia ad ogni stanza e varie armi appese alle pareti (moschetti, sciabole, armi da taglio...), mentre la sala in cui avviene l'incontro con l'innominato non presenta dettagli rilevanti, cosa che può dirsi anche per altri "interni" che appariranno nei successivi episodi.

Dopo il rapimento (XX) Lucia è condotta da Monza al castello in carrozza (il viaggio dura più di quattro ore) e una volta che il veicolo è giunto ai piedi del sentiero che sale alla fortezza, di fronte alla Malanotte, esso non può proseguire a causa dell'erta ripida e la giovane è trasferita su di una portantina insieme alla vecchia serva dell'innominato. Questa conduce poi Lucia nella sua stanza (XXI), cui si accede tramite una "scaletta" e dove poco dopo giunge anche l'innominato; la stanza è spoglia e non presenta alcuna descrizione particolare, così come la camera in cui dorme il bandito e che viene mostrata dopo, della quale si dice solo che ha una finestra che si affaccia sul lato destro del castello, verso lo sbocco della valle (da lì l'uomo vede la gente che accorre dal cardinal Borromeo, giunto in visita pastorale al vicino paesetto che non dev'essere troppo lontano da quello dei due promessi, dal momento che fra i curati presenti c'è anche don Abbondio).

Questi percorre in seguito la salita al castello in groppa a una mula, insieme all'innominato e a una lettiga che trasporta la moglie del sarto del paese, con il compito di rincuorare Lucia nel momento in cui verrà liberata (XXIII): una volta giunti alla fortezza i due sono fatti entrare e apprendiamo che vi sono due cortili, uno più esterno e un altro interno. Sulla strada del ritorno il curato osserva con una certa apprensione lo strapiombo del dirupo che è costretto a rasentare e maledice la mula in quanto procede sul ciglio del burrone, tirando infine il fiato solo quando è fuori da quella valle dalla fama sinistra (XXIV).

Lo stesso don Abbondio, Agnese e Perpetua torneranno lì molti mesi dopo, per cercare rifugio nel castello a causa della calata in Lombardia dei lanzichenecchi, durante la guerra di Mantova (XXIX): l'innominato ha già raccolto al castello molti uomini e ha disposto armati e posti di guardia in vari punti della valle, cosicché il luogo è perfettamente difeso. I tre giungono alla Malanotte a bordo di un baroccio procurato dal sarto (XXX) e qui trovano un folto gruppo di armati, quindi procedono a piedi lungo la salita e Agnese rabbrividisce al pensiero che la figlia ha percorso quella stessa strada prigioniera dei bravi. Vengono accolti benevolmente dall'innominato che offre loro ospitalità e le donne vengono sistemate in un quartiere a parte, che occupa tre lati del cortile più interno del castello (nella parte posteriore dell'edificio, a strapiombo su un precipizio); il corpo centrale che unisce il cortile interno a quello esterno è occupato da masserizie e provviste, mentre nel quartiere destinato agli uomini ci sono alcune camere riservate agli ecclesiastici e don Abbondio è il primo a occuparne una. Lui e le due donne si trattengono al castello "ventitré o ventiquattro giorni", quindi, nel momento in cui il pericolo dei lanzichenecchi è cessato, l'innominato li accompagna di persona alla Malanotte dove fa trovare una carrozza, e questa li porta poi al loro paese. È questa l'ultima apparizione dell'innominato nel romanzo e lo stesso può dirsi anche del suo castello.

Il luogo è stato giustamente interpretato come un riflesso "simbolico" dell'indole del suo signore, che vive nella sua solitudine asserragliato su un'alta montagna e rende il proprio maniero inaccessibile a chiunque non voglia fare avvicinare: tale è la condizione dell'innominato sino al ravvedimento, poi è lui stesso a scendere dall'altura per incontrare il cardinale e giungere alla conversione, per cui il castello è in certo qual modo immagine dell'isolamento del peccato che l'uomo spezza andando a parlare con il Borromeo. Data l'identificazione tra il personaggio manzoniano e la figura storica di Francesco Bernardino Visconti, si pensa che il suo castello fosse quello i cui resti sorgono ancora nella cittadina di Vercurago, sulla strada che un tempo collegava Bergamo a Lecco (rimangono in piedi un torrione e parte della cinta muraria).

QUANDO?

Autunno 1629

RIASSUNTO

Intanto Don Abbondio, ricevuta notizia dell'arrivo degli eserciti, convinto sempre più di andarsene prima di tutti, seguiva Perpetua, in quanto incapace di ragionare per la paura. Egli implorava aiuto dalla finestra ai suoi parrocchiani, ma quelli indaffarati nella fuga non gli davano retta. Poi, entrò Agnese che propose ai due di andare con lei dall'Innominato, così tutti e tre si incamminarono per i campi, seppur Don Abbondio brontolasse. Si ritrovarono nel paese del sarto e andarono a fargli visita; questo fece raccogliere fichi, pesche, fece cuocere castagne e si mise a parlare del buon rifugio che avevano scelto presso l'Innominato. Don Abbondio aveva fretta, così il sarto trovò un carretto per la seconda metà del viaggio. L'Innominato dal giorno della conversione era sempre intento a far del bene e in questi momenti aveva fatto spargere la notizia che il suo castello sarebbe stato sempre aperto per tutte quelle persona che ne avessero avuto bisogno, mettendo alcuni contadini di guardia al castello e facendo inoltre arrivare scorte di cibo e acqua per tutti i suoi ospiti.

TEMI PRINCIPALI TRATTATI NEL CAPITOLO

Il capitolo forma una sorta di "dittico" con quello seguente e racconta principalmente il viaggio di don Abbondio, Perpetua e Agnese verso il castello dell'innominato, per sfuggire ai lanzichenecchi che si abbandonano a saccheggi e atrocità in Lombardia (la vicenda storica è stata riassunta nella digressione del cap. XXVIII). I tre protagonisti sono gli unici personaggi principali ad apparire nei capp. XXIX-XXX, per cui la narrazione torna ad occuparsi delle vicende romanzesche dopo la parentesi storica che ha interamente occupato il cap. precedente.

Durante la prima parte del viaggio don Abbondio impreca contro i potenti del mondo, rei ai suoi occhi di attirare flagelli sulla povera gente per "il gusto di far la guerra" mentre "ne va di mezzo chi non ci ha colpa": è il consueto risvolto comico ed egoistico del curato che si vede costretto a fuggire dalla propria casa, ma è anche il punto di vista di un umile che non capisce il fine di una guerra nata da futili motivi dinastici, che causerà mali terribili alla popolazione (non ultima la peste portata dai soldati tedeschi). Non a caso lo scrittore, dopo la digressione storica del cap. XXVIII, ci mostra adesso le conseguenze del conflitto sui contadini e sul popolo inerme, rovesciando come al solito la prospettiva della storiografia ufficiale che badava esclusivamente ai personaggi potenti e ai grandi eventi politici e militari. Per approfondire: U. Dotti, Guerra, fame, peste.

Ritorna nel romanzo il sarto del paese vicino al castello dell'innominato, già visto in occasione della liberazione di Lucia (capp. XXIV ss.): l'uomo si mostra ancora una volta un ospite generoso ed accoglie i nuovi arrivati alla sua tavola come aveva fatto con Lucia e la madre, riservando in questa occasione un trattamento speciale al curato in quanto personaggio di riguardo. Curioso il fatto che qui i figli del sarto diventino "una bambina" e due ragazzi, mentre nel cap. XXIV erano "due bambinette e un fanciullo" (si tratta certamente di una svista del grande romanziere).

Il sarto ancora ricorda con imbarazzo la figura poco brillante fatta a suo tempo con il cardinale, quando aveva risposto con un insulso "Si figuri!" alle richieste del prelato (cap. XXIV), per cui non rinuncia a sfoggiare la sua cultura libresca con don Abbondio: i lanzichenecchi non dovrebbero venire, dice, in ospitazione da quelle parti (il termine, secentesco, indica l'alloggiamento delle soldatesche), la guerra gli ricorda "la storia de' mori in Francia" (il riferimento è ai romanzi cavallereschi citati nel cap. XXIV), il castello dell'innominato è diventato, dopo la conversione del bandito, una "Tebaide" (la regione storica dell'Egitto sede nell'antichità di molti eremiti). L'uomo si vanta anche ingenuamente di aver conosciuto di persona lo stesso Borromeo, osservando che il ritratto del cardinale sulla stampa non è molto somigliante.

La seconda parte del capitolo è occupata dalla descrizione della nuova vita dell'innominato dopo la clamorosa conversione, improntata alla carità e alla benevolenza verso il prossimo e assolutamente refrattaria all'uso della violenza. L'autore dà anche conto del fatto che la giustizia rinunci a perseguire l'ex-bandito per i passati delitti, nonché dei rapporti con gli antichi complici di scelleratezze (sul punto si veda oltre).

TRAMA

Calata dei lanzichenecchi in Lombardia. Agnese propone a don Abbondio e Perpetua di rifugiarsi al castello dell'innominato. Viaggio dei tre verso il confine col Bergamasco. Il sarto e la sua famiglia ospitano il curato e le due donne. I tre giungono in vista del castello.

GLOSSARIO

A minuto: per piccoli crimini

Birboneggiando in libertà: mettersi a lavorare in proprio

Bordone: bastone

Bugigattoli: ripostigli

Cimento: prova

Concertare: mettersi d'accordo

I vari partiti: le diverse possibilità

Inchinato: omaggiato

Irresoluzione: indecisione

Le avevan fatto tanto pro: le erano stati d'aiuto

Oblivione: dimenticanza

Portamenti: azioni dei soldati

Ricattarsi: vendicarsi

Sacconi: materassi

Stornare: dissuadere

Strapunti: coperte

Terzo: reggimento

Tumultuaria: agitata

DOMANDE SULLA COMPRENSIONE DEL CAPITOLO:

1) Come si comporta don Abbondio quando si sparge la voce della calata dell’esercito alemanno?
2) «Eh messere! Faccia lei come può»: così dice a don Abbondio un uomo in fuga: ti sembra giusta questa frase?
3) «Al popolo tocca a custodirla, che serve a lui»: chi pronuncia ciò? Leggi da «don Abbondio andò...» a «tal sia di loro» e commenta.
4) «Sempre solo e senz’armi»: chi si comporta così? Quali sono i sentimenti dei bravi e degli uomini in genere nei confronti di questo personaggio? Leggi da «il sarto aveva detto la verità» a «anche loro, più o meno» e da «è vero ch’eran anche molti...» alla fine del capitolo: riassumi e commenta.

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