Capitolo XXVIII

illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840

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"In quanto a don Gonzalo, poco dopo quella risposta, se n'andò da Milano; e la partenza fu trista per lui, come lo era la cagione. Veniva rimosso per i cattivi successi della guerra, della quale era stato il promotore e il capitano; e il popolo lo incolpava della fame sofferta sotto il suo governo. All'uscir dunque, in carrozza da viaggio, dal palazzo di corte, fu accolto con gran fischiate da ragazzi ch'eran radunati sulla piazza del duomo. Quando furon vicini alla porta, cominciarono anche a tirar sassi, mattoni, torsoli, bucce d'ogni sorte..."

CHI?

Ambrogio Spinola

illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840

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È il il nobile genovese che nel 1629 sostituisce don Gonzalo Fernandez de Cordoba nella carica di governatore di Milano, dopo la sua rimozione in seguito al cattivo esito della guerra e dell'assedio di Casale del Monferrato: personaggio storico, lo Spinola (1569-1630) fu condottiero al servizio dell'arciduca Alberto, governatore dei Paesi Bassi dominati dalla Spagna, e prese parte alla guerra di Fiandra ottenendo la resa di Ostende (1604), anche se in seguito la Spagna preferì giungere a un accordo con le Province Unite. Divenuto governatore di Milano, gli fu ordinato di prendere Casale ai Francesi ma fallì nell'impresa, ritirandosi in seguito nel suo feudo di Castelnuovo Scrivia dove morì. L'autore lo introduce nel cap. XXVIII del romanzo, dando notizia del suo avvicendamento al governo milanese al posto di don Gonzalo, quindi lo nomina nuovamente nel cap. XXXI dedicato alla peste del 1629-30, allorché Alessandro Tadino e un altro commissario del Tribunale di Sanità lo pregano di assumere provvedimenti urgenti per stringere un cordone sanitario intorno alla città: lo Spinola risponde che la situazione lo affligge, ma le preoccupazioni della guerra sono più pressanti e in sostanza non prende alcuna decisione. Pochi giorni dopo, il 18 nov. 1629, ordina con una grida che si tengano pubblici festeggiamenti per la nascita del primogenito di re Filippo IV, incurante del fatto che un gran concorso di folla nelle strade di Milano non potrà che accrescere il pericolo del contagio, che infatti si diffonderà ampiamente nei mesi seguenti. All'inizio del cap. XXXII viene ricordato che il 4 maggio 1630, quando ormai la peste sta infuriando nella città di Milano e diventa sempre più difficile far fronte alle necessità pubbliche coi pochi denari a disposizione, due decurioni (i magistrati cittadini che si occupavano del governo municipale) si recano al campo di Casale per pregare il governatore di sospendere il pagamento delle imposte e le spese per l'alloggiamento dei soldati, nonché di concedere alla città i fondi necessari per fronteggiare al meglio la calamità. La risposta scritta dello Spinola è desolante, in quanto egli manifesta il suo dispiacere per la situazione ma non prende alcun concreto provvedimento, apponendo in calce "un girigogolo, che voleva dire Ambrogio Spinola, chiaro come le sue promesse". Il gran cancelliere Antonio Ferrer manifesta al governatore il suo disappunto in altre lettere, finché il governatore lo investe della responsabilità di far fronte alla peste, poiché lui è impegnato nelle operazioni belliche.

L'autore condanna con impietosa ironia la sua figura, simile a quella di don Gonzalo per la volontà caparbia di fare la guerra e la sordità ai problemi della popolazione a lui sottomessa, mentre viene criticata anche la storiografia ufficiale che ne ha esaltato la condotta militare e ne ha invece sottaciuto le gravi colpe nel sottovalutare il pericolo della peste e nel non assumere i necessari provvedimenti per arginare il contagio. Manzoni ricorda non senza un certo sarcasmo che lo Spinola morì pochi mesi dopo nel corso della guerra, non sul campo di battaglia ma nel proprio letto, struggendosi per i rimproveri che gli venivano mossi e che lui riteneva ingiusti (il personaggio è parte della critica al mondo del potere che attraversa l'intero romanzo, benché non abbia un vero ruolo narrativo nelle vicende dei Promessi sposi).

DOVE?

Il lazzaretto

illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840

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È il recinto di forma rettangolare posto esternamente alle mura di Milano, vicino a Porta Orientale, destinato al ricovero degli appestati durante l'epidemia di peste del 1630: il luogo è presentato per la prima volta nel cap. XI, quando Renzo giunge a Milano dopo aver lasciato il paese in seguito al fallito tentativo di rapimento di Lucia, indirizzato da padre Cristoforo al convento dei cappuccini di Porta Orientale (l'edificio è descritto come una "fabbrica lunga e bassa" che costeggia le mura della città e il giovane, seguendo le indicazioni di un passante, percorre il fossato che lo circonda arrivando ben presto a Porta Orientale). Il nome "lazzaretto" è collegato al lebbroso Lazzaro della parabola evangelica del ricco epulone (Luca, XVI, 19-31), con probabile influenza anche dell'episodio della resurrezione di Lazzaro di Betania ad opera di Gesù (Giov., XI), anche se il termine propriamente deriva dalla storpiatura del nome dell'isola veneziana di S. Maria di Nazareth, che veniva detta Nazarethum ed era destinata al ricovero di malati contagiosi provenienti dalla Terrasanta (Manzoni usa nel romanzo la forma lazzeretto, in uso nell'italiano dell'epoca). A Milano il lazzaretto era originariamente destinato al ricovero e alla quarantena dei malati di peste, diventando poi sinonimo di luogo in cui venivano curate malattie infettive e contagiose, nonché, per estensione, di spazio pieno di miserie e squallore indicibile. Il lazzaretto è uno spazio narrativo autonomo rispetto al resto della città di Milano e viene descritto in due momenti salienti della vicenda, all'epoca della carestia (XXVIII) e della peste (XXXI ss.).

QUANDO?

Dall'11 novembre 1628 all'autunno 1629

RIASSUNTO

Questo è un capitolo, in cui il Manzoni abbandona di nuovo i suoi personaggi, per tracciare un quadro storico degli avvenimenti successivi alla rivolta di San Martino, che ebbe come conseguenza un ribasso del prezzo del pane; tale evento storico risultò fatale, in quanto il popolino, affamato, si abbandonò ad uno sfrenato consumo, e troppo tardi si accorse delle disastrose conseguenze, perché così facendo, non solo rendeva impossibile una lunga durata "a goder del buon mercato presente", ma addirittura ne impediva "una continuazione momentanea". Anche i contadini abbandonavano la campagna e si riversavano in città; la situazione era destinata a precipitare; i tentativi di porvi rimedio non ottenevano alcun risultato efficace. Consumate le scorte, la fame divenne un male disastroso, pericoloso e inevitabile.

In città, chiusi negozi e fabbriche, la disoccupazione imperversa e la miseria si spande a macchia d’olio. Accattoni e mendicanti formano una buona parte della popolazione. Il Cardinale Federigo in questa circostanza organizza i soccorsi: forma tre coppie di preti che, seguiti da facchini carichi di cibi e di vesti, girano per la città, per dare aiuto a chi è più in difficoltà. Ma l’interessamento caritatevole del Cardinale, unito alla generosità dei privati e ai provvedimenti dell’autorità della città, si dimostra inadeguato rispetto alla grandezza del male.

Per tutto il giorno nelle strade si ode "un ronzio confuso di voci supplichevoli, la notte, un sussurro di gemiti," ma non si ode "mai un grido di sommossa". Eppure, osserva l’autore, tra coloro che soffrivano "c’era un buon numero di uomini educati a tutt’altro che a tollerare," per cui conclude che spesso "ci rivoltiamo sdegnati e furiosi contro i mali mezzani, e ci curviamo in silenzio sotto gli estremi". Se qualcuno era in grado di fare qualche elemosina, la scelta era ardua; all’ avvicinarsi di una mano pietosa, all’intorno era una gara d’infelici, che stendevano la loro mano. Poiché le strade diventano ogni giorno di più un ammasso di cadaveri, trascorso l’inverno e la primavera, il tribunale di provvisione decide "di radunare tutti gli accattoni, sani ed infermi, in un sol luogo, nel lazzaretto," dove potranno essere aiutati a spese pubbliche. In pochi giorni gli ospitati arrivano a tremila; ma i più, o per godere le elemosine della città o per la ripugnanza di star chiusi nel lazzaretto, restano fuori. Per cacciare dunque gli accattoni al lazzaretto, si deve ricorrere alla forza, e così, in pochi giorni, il numero dei ricoverati sale a circa diecimila. Ma tale iniziativa, sia pur lodevole nelle intenzioni, per l’ammassarsi di tanti infelici in un sol luogo, per l’organizzazione carente e per l’inadeguatezza dei mezzi, è insufficiente. La gente dorme per terra o sulla paglia; il pane è fatto "con sostanze pesanti e non nutrienti"; manca persino l’acqua potabile; perciò la mortalità cresce a tal punto che si comincia a parlare di pestilenza. Per porre rimedio a questa grave e pericolosa situazione, si mandano via dal lazzaretto tutti i poveri non ammalati, mentre gli infermi vengono ricoverati nell’ospizio dei poveri di Santa Maria della Stella. Finalmente, con il nuovo raccolto il popolo ha di che sfamarsi, ma la mortalità, per epidemia o contagio, anche se con minore intensità, si protrae fino all’autunno, quand’ecco, implacabile, un nuovo flagello si abbatte sulla popolazione: la guerra. Infatti il Cardinale Richelieu con il re, alla testa di un esercito, scende in Italia e occupa Casale, tenuto prima da don Gonzalo. Nel frattempo si dispone "a calar nel milanese" anche l’esercito di Ferdinando, nel quale pare che covasse la peste, tanto che si fa divieto a chiunque, quando l’esercito muove all’assalto di Mantova, "di comprar roba di nessuna sorte dai soldati". Ma tale divieto non è preso in considerazione. L’esercito di Ferdinando, era per lo più composto da bande mercenarie, i Lanzichenecchi, che mettevano a soqquadro tutti i paesi, portando via dalle case tutti gli oggetti di valore.

TEMI PRINCIPALI TRATTATI NEL CAPITOLO

Il capitolo è interamente occupato da una digressione storica e per la prima volta non compare nessuno dei personaggi principali del romanzo, cosa che avverrà anche nei capp. XXXI-XXXII dedicati alla peste: l'excursus è diviso in due parti, la prima delle quali descrive l'infuriare della carestia nel Milanese dopo il tumulto di S. Martino, mentre la seconda narra le successive vicende della guerra di Mantova e del Monferrato, che porteranno alla calata dei lanzichenecchi in Lombardia e al diffondersi dell'epidemia di peste. Come nei capitoli sul terribile morbo, anche qui le fonti storiche dell'autore sono principalmente l'Historia patria di G. Ripamonti e il Ragguaglio di A. Tadino, nonché molte gride e documenti dell'epoca.

Il racconto della carestia prosegue idealmente quello dei capp. XII-XIII dedicati al tumulto dell'11-12 nov. 1628, illustrando i provvedimenti assunti dal governo di Milano per ribassare il prezzo del pane e tenere così a bada il popolo inferocito (la cosa era già stata anticipata dal mercante all'osteria di Gorgonzola, nel cap. XVI). L'autore condanna con forza una politica così miope, che finirà per esaurire più in fretta le scorte di grano e aggravare la carestia che, infatti, riesploderà poche settimane dopo con inaudita virulenza (sul punto si veda oltre).

Viene introdotto per la prima volta, dopo l'accenno nel cap. XI, il lazzaretto di Milano, in cui le autorità raccolgono gli accattoni che affollano le strade della città e in cui non tarda a diffondersi un'alta mortalità per il propagarsi di malattie contagiose. La descrizione del luogo anticipa quella dei capp. XXXI ss. al tempo della peste, quando il lazzaretto diventerà il ricovero degli ammalati e dove Renzo ritroverà padre Cristoforo e Lucia.

La seconda parte del capitolo è dedicata alla ripresa della guerra di Mantova, conseguente alla presa della rocca della Rochelle ad opera del card. Richelieu e alla discesa in Italia delle truppe francesi, cosa che costringe don Gonzalo a togliere l'assedio a Casale: l'autore sottolinea come le operazioni militari siano dettate dal gioco delle mobili alleanze dei sovrani europei, per cui ad esempio il duca di Savoia non esita a stringere un accordo con la Francia e ad abbandonare l'alleato spagnolo, mentre i Francesi sono poi lesti a tornare in patria dove sono impegnati in questioni più urgenti. Una parentesi riguarda anche la triste partenza da Milano di don Gonzalo, rimosso dalla carica di governatore per gli insuccessi militari e fatto bersaglio dei fischi e delle rimostranze della folla (nel cap. XXXI verrà indicato dai Milanesi quale mandante degli untori durante l'epidemia di peste, per vendicarsi delle offese ricevute).

Manzoni cita il "famigerato" verso di Claudio Achillini che omaggia le imprese militari di Luigi XIII ("Sudate, o fochi, a preparar metalli"), spesso indicato quale esempio del "concettismo" barocco e delle immagini inusitate e di cattivo gusto della poesia del Seicento, come in questo caso quella delle fornaci che "sudano" per forgiare le armi dei francesi. Il verso è tratto da un sonetto scritto nel 1629 per celebrare proprio la presa della Rochelle e la successiva liberazione di Casale.

Il capitolo si chiude con la descrizione della calata in Lombardia dei lanzichenecchi, i soldati mercenari dell'esercito imperiale che si dirigono verso Mantova per assediarla e che durante il loro passaggio si abbandonano a efferati saccheggi: uno dei loro comandanti era quell'Albrecht von Wallenstein già citato nel cap. V durante la discussione tra il conte Attilio e il podestà di Lecco, figura storica che affascinò molto il Manzoni per quella parabola di ascesa e caduta che lo rende simile ad altri suoi personaggi (soprattutto il conte di Carmagnola, protagonista dell'omonima tragedia, ma in parte anche il Napoleone del Cinque Maggio). F. Schiller fece del Wallenstein il protagonista di una trilogia tragica, dedicata complessivamente alla guerra dei Trent'anni.

TRAMA

Provvedimenti del governo di Milano dopo il tumulto di S. Martino. La carestia si aggrava in tutto il Ducato. Il cardinal Borromeo soccorre con opere di carità i bisognosi in città. Il lazzaretto diventa il luogo in cui sono ammassati i poveri e gli accattoni. Aumento delle febbri e della mortalità tra la popolazione di Milano. Le vicende della guerra di Mantova e l'allontanamento del governatore don Gonzalo da Milano. La discesa dei lanzichenecchi in Lombardia e i loro tremendi saccheggi.

GLOSSARIO

Aduste: asciutte

Affilate: magre

Ammalazzati: malati

Contumacia: quarantena

Desolata: devastata

Fattizia: fittizia, finta

Franche: libere

Gale: abiti eleganti

Genìa: stirpe, combriccola

Grasce: derrate alimentari

Insensato: spaesato

Licenza: libertà

Margini: cicatrici

Motosa: fangosa

Per ufizio: per dovere

Querele: lamenti

Rinviliare: tornare vile, a buon prezzo

Riso vestito: riso grezzo, non privato della buccia che riveste il chicco

Sedizione: rivolta

Segatura: mietitura

S'erano addati: si erano dedicati

Sterilità: carestia

Stupidi: stupiti

Torvo: arrabbiato

Trombetti: trombettieri

Uno studio: una premura

DOMANDE SULLA COMPRENSIONE DEL CAPITOLO:

1) Come si comporta il popolo di Milano quando, dopo la «sedizione», «parve che l’abbondanza fosse tornata in città»?: ti pare razionale tale comportamento?
2) Leggi con attenzione da «a ogni passo...» a «nell’età più deboli»: questi sono gli effetti della carestia: quali sono le categorie sociali che più ne sono vittime? Elencale.
3) Riassumi le «carità» organizzate dal «buon Federigo», commentale.
4) Riassumi il comportamento delle autorità nei confronti dell’apertura e della chiusura del «lazzeretto», ti pare logico?
5) Esprimi le tue idee intorno al comportamento dell’esercito «alemanno».

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