Capitolo XXIII

illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840

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"A misura che queste parole uscivan dal suo labbro, il volto, lo sguardo, ogni moto ne spirava il senso. La faccia del suo ascoltatore, di stravolta e convulsa, si fece da principio attonita e intenta; poi si compose a una commozione più profonda e meno angosciosa; i suoi occhi, che dall'infanzia più non conoscevan le lacrime, si gonfiarono; quando le parole furono cessate, si coprì il volto con le mani, e diede in un dirotto pianto, che fu come l'ultima e più chiara risposta..."

CHI?

Cappellano crocifero

illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840

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È il sacerdote che svolge le funzioni di segretario particolare del cardinal Borromeo, solitamente addetto a portare la croce nelle funzioni solenni (da qui il nome): compare nel cap. XXII, allorché l'innominato si reca a visitare il cardinale e si incarica di riferire al prelato la presenza del famoso bandito, cosa che fa non senza remore e timori. In seguito annunzia a Federigo che l'innominato vuole vederlo (XXIII) e si mostra assai stupito dell'entusiasmo del cardinale, tentando inutilmente di metterlo in guardia circa la possibilità, invero assai remota, che il bandito sia lì per assassinarlo. Introduce poi l'innominato nella sala e, in seguito al colloquio tra i due, è richiamato dal Borromeo che gli chiede se tra i parroci riuniti lì vi sia anche quello del paese dei due promessi, ovvero don Abbondio, al che il cappellano risponde di sì. Gli viene ordinato di chiamare lui e il curato di quella parrocchia e il cappellano svolge l'ambasciata, suscitando la viva sorpresa di don Abbondio che esita non poco a seguirlo dal cardinale. Si occupa infine di fare sellare le due mule che dovranno portare don Abbondio e l'innominato al castello, per liberare Lucia, e di allestire la lettiga che dovrà portare la moglie del sarto e poi la stessa Lucia dopo la sua liberazione. Compare ancora nel cap. XXV, in occasione della visita del cardinale al paese di don Abbondio, durante la quale lo vediamo portare appunto la croce in processione, in sella a una mula; più avanti introduce dal prelato Agnese e Lucia, dopo aver dato loro istruzioni circa il modo in cui rivolgersi al cardinale (l'autore osserva con ironia che l'uomo si preoccupa eccessivamente del "poco ordine" che regna intorno al suo superiore e della troppa confidenza che alcuni usano con lui, approfittando della sua benevolenza). È presentato come un personaggio comico, goffo nel suo zelo esagerato e nei suoi timori riguardo al cardinale, facendo una sorta di contrappunto umoristico ai modi solenni e pieni di carità del suo superiore; rimane pieno di stupore di fronte alla conversione dell'innominato, comunicandola poi ai curati presenti con la frase biblica haec mutatio dexterae Excelsi ("questa conversione è opera della mano dell'Altissimo").

DOVE?

Il castello dell'innominato

illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840

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È l'inespugnabile fortezza in cui vive e opera l'innominato, situata in un punto imprecisato lungo il confine tra il Milanese e il Bergamasco e distante non più di sette miglia dal palazzotto di don Rodrigo: il luogo è descritto all'inizio del cap. XX, quando il signorotto vi si reca per chiedere l'aiuto del potente bandito nel rapimento di Lucia e fin dall'inizio si presenta come un castello truce e sinistro, specchio fedele della personalità del signore che vi risiede. Infatti sorge in cima a un'erta collina al centro di una valle "angusta e uggiosa" che è a cavallo del confine dei due stati, accessibile solo attraverso un sentiero tortuoso che si inerpica verso l'alto e che è dominato dagli occupanti del castello, che sono dunque al riparo dall'assalto di qualunque nemico; il castello è come un nido di aquile in cui l'innominato non ha nessuno al di sopra di sé e da dove può dominare anche fisicamente su tutto il territorio circostante, di cui egli è considerato l'assoluto padrone (i pochi birri che si sono avventurati lì sono stati uccisi e nessuno oserebbe addentrarvisi senza essere amico del bandito).

All'inizio del sentiero che conduce in alto c'è un'osteria che funge da corpo di guardia, la quale, a dispetto dell'insegna che mostra un sole splendente, è nota come la Malanotte e in cui stazionano bravi dell'innominato armati fino ai denti: qui si ferma don Rodrigo quando giunge insieme ai suoi sgherri e viene precisato che nessuno può salire al castello armato, per cui il signorotto deve consegnare ai bravi il suo schioppo. In seguito viene accompagnato all'interno della fortezza e percorre una serie di oscuri corridoi, con bravi di guardia ad ogni stanza e varie armi appese alle pareti (moschetti, sciabole, armi da taglio...), mentre la sala in cui avviene l'incontro con l'innominato non presenta dettagli rilevanti, cosa che può dirsi anche per altri "interni" che appariranno nei successivi episodi.

Dopo il rapimento (XX) Lucia è condotta da Monza al castello in carrozza (il viaggio dura più di quattro ore) e una volta che il veicolo è giunto ai piedi del sentiero che sale alla fortezza, di fronte alla Malanotte, esso non può proseguire a causa dell'erta ripida e la giovane è trasferita su di una portantina insieme alla vecchia serva dell'innominato. Questa conduce poi Lucia nella sua stanza (XXI), cui si accede tramite una "scaletta" e dove poco dopo giunge anche l'innominato; la stanza è spoglia e non presenta alcuna descrizione particolare, così come la camera in cui dorme il bandito e che viene mostrata dopo, della quale si dice solo che ha una finestra che si affaccia sul lato destro del castello, verso lo sbocco della valle (da lì l'uomo vede la gente che accorre dal cardinal Borromeo, giunto in visita pastorale al vicino paesetto che non dev'essere troppo lontano da quello dei due promessi, dal momento che fra i curati presenti c'è anche don Abbondio).

Questi percorre in seguito la salita al castello in groppa a una mula, insieme all'innominato e a una lettiga che trasporta la moglie del sarto del paese, con il compito di rincuorare Lucia nel momento in cui verrà liberata (XXIII): una volta giunti alla fortezza i due sono fatti entrare e apprendiamo che vi sono due cortili, uno più esterno e un altro interno. Sulla strada del ritorno il curato osserva con una certa apprensione lo strapiombo del dirupo che è costretto a rasentare e maledice la mula in quanto procede sul ciglio del burrone, tirando infine il fiato solo quando è fuori da quella valle dalla fama sinistra (XXIV).

Lo stesso don Abbondio, Agnese e Perpetua torneranno lì molti mesi dopo, per cercare rifugio nel castello a causa della calata in Lombardia dei lanzichenecchi, durante la guerra di Mantova (XXIX): l'innominato ha già raccolto al castello molti uomini e ha disposto armati e posti di guardia in vari punti della valle, cosicché il luogo è perfettamente difeso. I tre giungono alla Malanotte a bordo di un baroccio procurato dal sarto (XXX) e qui trovano un folto gruppo di armati, quindi procedono a piedi lungo la salita e Agnese rabbrividisce al pensiero che la figlia ha percorso quella stessa strada prigioniera dei bravi. Vengono accolti benevolmente dall'innominato che offre loro ospitalità e le donne vengono sistemate in un quartiere a parte, che occupa tre lati del cortile più interno del castello (nella parte posteriore dell'edificio, a strapiombo su un precipizio); il corpo centrale che unisce il cortile interno a quello esterno è occupato da masserizie e provviste, mentre nel quartiere destinato agli uomini ci sono alcune camere riservate agli ecclesiastici e don Abbondio è il primo a occuparne una. Lui e le due donne si trattengono al castello "ventitré o ventiquattro giorni", quindi, nel momento in cui il pericolo dei lanzichenecchi è cessato, l'innominato li accompagna di persona alla Malanotte dove fa trovare una carrozza, e questa li porta poi al loro paese. È questa l'ultima apparizione dell'innominato nel romanzo e lo stesso può dirsi anche del suo castello.

Il luogo è stato giustamente interpretato come un riflesso "simbolico" dell'indole del suo signore, che vive nella sua solitudine asserragliato su un'alta montagna e rende il proprio maniero inaccessibile a chiunque non voglia fare avvicinare: tale è la condizione dell'innominato sino al ravvedimento, poi è lui stesso a scendere dall'altura per incontrare il cardinale e giungere alla conversione, per cui il castello è in certo qual modo immagine dell'isolamento del peccato che l'uomo spezza andando a parlare con il Borromeo. Data l'identificazione tra il personaggio manzoniano e la figura storica di Francesco Bernardino Visconti, si pensa che il suo castello fosse quello i cui resti sorgono ancora nella cittadina di Vercurago, sulla strada che un tempo collegava Bergamo a Lecco (rimangono in piedi un torrione e parte della cinta muraria).

QUANDO?

Novembre 1628

RIASSUNTO

È il capitolo che descrive in maniera mirabile l’incontro e il dialogo tra l'Innominato e Federigo, incontro che culmina con un lungo abbraccio di riconciliazione. Il Cardinale, conosciuta la vicenda di Lucia, fa chiamare immediatamente don Abbondio, presente con gli altri parroci della zona, e gli affida l'incarico di provvedere al recupero della ragazza e a riportarla a casa.
Dopo questo episodio, ci viene raccontato il viaggio di don Abbondio, grandemente terrorizzato, in compagnia del terribile signore, fino al suo castello.

TEMI PRINCIPALI TRATTATI NEL CAPITOLO

Il capitolo riprende la narrazione degli eventi dopo la pausa del cap. XXII, occupato quasi interamente dalla biografia del cardinal Borromeo: l'episodio è diviso in due parti, la prima delle quali descrive il confronto tra Federigo e l'innominato che porta alla conversione del bandito, mentre la seconda ha per protagonista don Abbondio ed ha risvolti decisamente più umoristici, facendo da contrappunto ai toni drammatici di quanto narrato nei capp. precedenti. Il curato torna in scena dopo una lunga assenza, dal momento che era apparso l'ultima volta direttamente nel cap. VIII ed era stato citato nel cap. XI.

Il drammatico confronto tra il bandito e il cardinale è il momento centrale del capitolo e, in un certo senso, dell'intero romanzo, poiché grazie alla conversione dell'innominato Lucia verrà liberata e i piani criminosi di don Rodrigo saranno sventati: il dialogo mette di fronte due personaggi di altissima statura morale, ovvero un vescovo amato dal popolo per la sua fama di santità e un malfattore famigerato per i suoi crimini, anche se in preda a una terribile crisi di coscienza e in cerca di risposte alla sua ansia interiore. L'episodio è rappresentato dall'autore con toni elevati e, tuttavia, senza eccedere nel patetico o nei risvolti stucchevoli, in quanto la conversione del bandito viene descritta come il momento finale di un percorso interiore iniziato tempo prima (lo si è visto già nel cap. XX) e giunge alla conclusione attraverso l'incontro decisivo col prelato, che qui appare come un provvidenziale inviato di Dio. Federigo assume un atteggiamento paterno e benevolo verso l'innominato, senza usare un tono predicatorio o di superiorità ma, anzi, sforzandosi di mettersi sullo stesso piano della "pecorella smarrita" con autentico spirito evangelico (Federigo appare qui non tanto come un vescovo quanto come un pastore chiamato a salvare un'anima, e in questo la sua figura è stata accostata al monsignor Myriel dei Miserabili di V. Hugo, che accoglie a braccia aperte l'ex-forzato Jean Valjean e tenta in ogni modo di redimerlo).

Don Abbondio viene nuovamente presentato dall'autore con le consuete caratteristiche della paura e dell'egoismo, per cui il curato resta insensibile alla straordinaria conversione dell'innominato e si preoccupa solamente per se stesso, tentando anche goffamente di sottrarsi alle sue responsabilità (sul punto si veda oltre). Memorabile è il suo "monologo interiore" durante il viaggio verso il castello in compagnia del bandito, che anticipa quello di tono simile di cui sarà protagonista nel viaggio di ritorno, nel cap. XXIV. Nel Fermo e Lucia l'episodio era assai più banale e per giunta il bandito era preso da dubbi e paure circa le reazioni dei bravi, che lo inducevano a dare istruzioni al curato su come comportarsi: cfr. il brano Il soliloquio di don Abbondio.

La donna inviata nella lettiga per consolare Lucia è la moglie del sarto del paese, che ospiterà la giovane e Agnese nei giorni seguenti (capp. XXIV-XXV).

TRAMA

Colloquio tra l'innominato e il cardinale. Pentimento dell'innominato, che rivela al cardinale il rapimento di Lucia. Il cardinale fa chiamare don Abbondio e gli affida il compito di andare a liberare la giovane, in compagnia di una "buona donna" (la moglie del sarto del paese) e dell'innominato. Timori e paure di don Abbondio durante il tragitto verso il castello del bandito.

GLOSSARIO

Argento vivo: mercurio

Caffo: dispari

Caparra: garanzia

Ciance: chiacchere

Concertato: pianificato

Da un par mio: da un uomo come me

Esecrazione: rimprovero

Espedienti: spediti

Faccendoni: indaffarati

Floridezza virginale: ragazzino

Il fiore: il meglio

Ombroso: sospettoso

Scomporre: dissimulare la smorfia

Sensitiva: sensibile

Ufizi divini: funzioni sacre

Un saggio: una prova

DOMANDE SULLA COMPRENSIONE DEL CAPITOLO:

1) «Non c’è rimedio: tutti questi santi sono ostinati»: chi pronuncia queste parole e perché? Ti par giusta «l’ostinazione» del cardinale Borromeo? E verso la fine del capitolo quali sono i pensieri di don Abbondio che ripetono all’incirca lo stesso concetto?
2) «I due rimasti stettero alquanto senza parlare, e diversamente sospesi»: leggi attentamente l'incontro fra il cardinale Borromeo e l’Innominato. Quali altri «due» hai visto a colloquio in uno dei precedenti capitoli? Rileggi e tenta un confronto.
3) Quali delle parabole evangeliche il cardinale Borromeo cita nel colloquio con l’Innominato? Ti pare appropriata?
4) «Io... me»: chi pronuncia queste parole? E qual è l’atteggiamento del personaggio al cospetto del cardinale Borromeo e dell’Innominato? Analizzalo, citando l’appropriata similitudine del Manzoni.
5) Con quale similitudine il Manzoni indica l’agitarsi dei pensieri sul volto dell’Innominato che sta tornando al castello verso la «valle tremenda»?



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