Capitolo XXI

illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840

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"- Alzatevi, - disse l'innominato a Lucia, andandole vicino. Ma Lucia, a cui il picchiare, l'aprire, il comparir di quell'uomo, le sue parole, avevan messo un nuovo spavento nell'animo spaventato, stava più che mai raggomitolata nel cantuccio, col viso nascosto tra le mani, e non movendosi, se non che tremava tutta. - Alzatevi, ché non voglio farvi del male... e posso farvi del bene, - ripeté il signore..."

CHI?

I bravi

illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840

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Erano gli sgherri che nel XVII secolo si mettevano al servizio di qualche signorotto locale, di cui formavano una soldataglia pronta a fargli da guardia del corpo ma anche ad aiutarlo nei suoi soprusi ai danni dei più deboli: il nome deriva dal lat. pravus (malvagio), di cui resta traccia in espressioni quali "compiere una bravata", trascorrere una "notte brava" e simili. Compaiono per la prima volta nel capitolo I, nella persona dei due figuri che, su incarico di don Rodrigo, minacciano don Abbondio perché non celebri il matrimonio tra Renzo e Lucia: l'autore li descrive con un abbigliamento particolare che li rende immediatamente riconoscibili, dal momento che portano i capelli raccolti in una reticella verde intorno al capo, hanno lunghi baffi arricciati e un ciuffo che ricade sul volto, sono armati di pistole e di spade. Manzoni cita varie gride dell'epoca in cui i governatori dello Stato di Milano intimavano ai bravi di cessare dalle loro scorrerie, tuttavia queste leggi restavano inapplicate poiché tali individui godevano dell'appoggio di signori potenti, che a loro volta contavano sull'inefficienza della giustizia e sulla connivenza dei pubblici funzionari, per cui i bravi agivano nella totale impunità. Nel capitolo III l'autore spiega inoltre che i bravi portavano il ciuffo come segno di riconoscimento e anche per coprire il volto durante le azioni delittuose, ragion per cui varie gride minacciavano pene severe a chi avesse portato i capelli in quella maniera, nonché ai barbieri che li avessero tagliati così ai loro clienti (Renzo dice all'Azzecca-garbuglidi non aver mai portato il ciuffo in vita sua, cioè di non essere mai stato un bravo).
I bravi nel romanzo sono anzitutto gli sgherri al servizio di don Rodrigo, capeggiati dal Griso: due di loro minacciano don Abbondio all'inizio, altri accolgono padre Cristoforo quando si reca al palazzo del loro padrone (V), altri ancora sono in paese la notte del "matrimonio a sorpresa" (VII) e poi partecipano al tentato rapimento di Lucia (VIII). Il mattino seguente alla "notte degli imbrogli" due bravi sono mandati dal Griso a minacciare il console del paese e l'autore lascia intendere che potrebbero essere gli stessi che, giorni prima, hanno intimidito don Abbondio. Alcuni di loro vengono nominati, come il Grignapoco che partecipa alla spedizione notturna e lo Sfregiato e il Tiradritto che dovranno accompagnare il Griso a Monza (XI), mentre quando don Rodrigo si reca al castello dell'innominato (XX) lo accompagnano quattro sgherri tra cui il Tiradritto, il Montanarolo, il Tanabuso e lo Squinternotto (si tratta evidentemente di nomi di battaglia, su cui il Manzoni ironizza definendoli "bei nomi, da serbarceli con tanta cura"). Nel capitolo XXXIII il signorotto invoca l'aiuto di Biondino e Carlotto, due bravi che il Griso ha allontanato con falsi ordini per consegnare il padrone ammalato di peste ai monatti.
Anche Lodovico in gioventù, prima di convertirsi e diventare fra Cristoforo, si circonda di bravacci nel tentativo di farsi difensore dei deboli e degli oppressi, e questi prendono parte alla rissa (IV) durante la quale viene ucciso il servitore di Lodovico e quest'ultimo uccide il signore che l'aveva provocato.
Un piccolo esercito di bravi, capeggiati dal Nibbio, circonda infine l'innominato, il quale affida al suo luogotenente e a due suoi uomini l'infame incarico di rapire Lucia (XX): alcuni di loro restano col padrone dopo la sua clamorosa conversione e contribuiscono a difendere il castello durante la calata dei lanzichenecchi (XXX), mentre la gran parte degli altri lasciano la sua dimora e si accasano presso altri padroni.

DOVE?

Il castello dell'innominato

illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840

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È l'inespugnabile fortezza in cui vive e opera l'innominato, situata in un punto imprecisato lungo il confine tra il Milanese e il Bergamasco e distante non più di sette miglia dal palazzotto di don Rodrigo: il luogo è descritto all'inizio del cap. XX, quando il signorotto vi si reca per chiedere l'aiuto del potente bandito nel rapimento di Lucia e fin dall'inizio si presenta come un castello truce e sinistro, specchio fedele della personalità del signore che vi risiede. Infatti sorge in cima a un'erta collina al centro di una valle "angusta e uggiosa" che è a cavallo del confine dei due stati, accessibile solo attraverso un sentiero tortuoso che si inerpica verso l'alto e che è dominato dagli occupanti del castello, che sono dunque al riparo dall'assalto di qualunque nemico; il castello è come un nido di aquile in cui l'innominato non ha nessuno al di sopra di sé e da dove può dominare anche fisicamente su tutto il territorio circostante, di cui egli è considerato l'assoluto padrone (i pochi birri che si sono avventurati lì sono stati uccisi e nessuno oserebbe addentrarvisi senza essere amico del bandito).

All'inizio del sentiero che conduce in alto c'è un'osteria che funge da corpo di guardia, la quale, a dispetto dell'insegna che mostra un sole splendente, è nota come la Malanotte e in cui stazionano bravi dell'innominato armati fino ai denti: qui si ferma don Rodrigo quando giunge insieme ai suoi sgherri e viene precisato che nessuno può salire al castello armato, per cui il signorotto deve consegnare ai bravi il suo schioppo. In seguito viene accompagnato all'interno della fortezza e percorre una serie di oscuri corridoi, con bravi di guardia ad ogni stanza e varie armi appese alle pareti (moschetti, sciabole, armi da taglio...), mentre la sala in cui avviene l'incontro con l'innominato non presenta dettagli rilevanti, cosa che può dirsi anche per altri "interni" che appariranno nei successivi episodi.

Dopo il rapimento (XX) Lucia è condotta da Monza al castello in carrozza (il viaggio dura più di quattro ore) e una volta che il veicolo è giunto ai piedi del sentiero che sale alla fortezza, di fronte alla Malanotte, esso non può proseguire a causa dell'erta ripida e la giovane è trasferita su di una portantina insieme alla vecchia serva dell'innominato. Questa conduce poi Lucia nella sua stanza (XXI), cui si accede tramite una "scaletta" e dove poco dopo giunge anche l'innominato; la stanza è spoglia e non presenta alcuna descrizione particolare, così come la camera in cui dorme il bandito e che viene mostrata dopo, della quale si dice solo che ha una finestra che si affaccia sul lato destro del castello, verso lo sbocco della valle (da lì l'uomo vede la gente che accorre dal cardinal Borromeo, giunto in visita pastorale al vicino paesetto che non dev'essere troppo lontano da quello dei due promessi, dal momento che fra i curati presenti c'è anche don Abbondio).

Questi percorre in seguito la salita al castello in groppa a una mula, insieme all'innominato e a una lettiga che trasporta la moglie del sarto del paese, con il compito di rincuorare Lucia nel momento in cui verrà liberata (XXIII): una volta giunti alla fortezza i due sono fatti entrare e apprendiamo che vi sono due cortili, uno più esterno e un altro interno. Sulla strada del ritorno il curato osserva con una certa apprensione lo strapiombo del dirupo che è costretto a rasentare e maledice la mula in quanto procede sul ciglio del burrone, tirando infine il fiato solo quando è fuori da quella valle dalla fama sinistra (XXIV).

Lo stesso don Abbondio, Agnese e Perpetua torneranno lì molti mesi dopo, per cercare rifugio nel castello a causa della calata in Lombardia dei lanzichenecchi, durante la guerra di Mantova (XXIX): l'innominato ha già raccolto al castello molti uomini e ha disposto armati e posti di guardia in vari punti della valle, cosicché il luogo è perfettamente difeso. I tre giungono alla Malanotte a bordo di un baroccio procurato dal sarto (XXX) e qui trovano un folto gruppo di armati, quindi procedono a piedi lungo la salita e Agnese rabbrividisce al pensiero che la figlia ha percorso quella stessa strada prigioniera dei bravi. Vengono accolti benevolmente dall'innominato che offre loro ospitalità e le donne vengono sistemate in un quartiere a parte, che occupa tre lati del cortile più interno del castello (nella parte posteriore dell'edificio, a strapiombo su un precipizio); il corpo centrale che unisce il cortile interno a quello esterno è occupato da masserizie e provviste, mentre nel quartiere destinato agli uomini ci sono alcune camere riservate agli ecclesiastici e don Abbondio è il primo a occuparne una. Lui e le due donne si trattengono al castello "ventitré o ventiquattro giorni", quindi, nel momento in cui il pericolo dei lanzichenecchi è cessato, l'innominato li accompagna di persona alla Malanotte dove fa trovare una carrozza, e questa li porta poi al loro paese. È questa l'ultima apparizione dell'innominato nel romanzo e lo stesso può dirsi anche del suo castello.

Il luogo è stato giustamente interpretato come un riflesso "simbolico" dell'indole del suo signore, che vive nella sua solitudine asserragliato su un'alta montagna e rende il proprio maniero inaccessibile a chiunque non voglia fare avvicinare: tale è la condizione dell'innominato sino al ravvedimento, poi è lui stesso a scendere dall'altura per incontrare il cardinale e giungere alla conversione, per cui il castello è in certo qual modo immagine dell'isolamento del peccato che l'uomo spezza andando a parlare con il Borromeo. Data l'identificazione tra il personaggio manzoniano e la figura storica di Francesco Bernardino Visconti, si pensa che il suo castello fosse quello i cui resti sorgono ancora nella cittadina di Vercurago, sulla strada che un tempo collegava Bergamo a Lecco (rimangono in piedi un torrione e parte della cinta muraria).

QUANDO?

Novembre 1628

RIASSUNTO

Il racconto che il Nibbio fa al padrone del rapimento di Lucia, scuote l'Innominato, che già da tempo si sente profondamente scontento della sua vita; le lacrime di Lucia lo turbano. Durante la notte, mentre la ragazza fa voto di consacrarsi alla Madonna se verrà liberata, egli è assalito da una profonda crisi che lo spinge a meditare il suicidio. Ma all'alba sente suonare le campane nella valle e si alza con propositi nuovi. È questo il capitolo della giustamente famosa “conversione dell'Innominato”.

TEMI PRINCIPALI TRATTATI NEL CAPITOLO

Il capitolo rappresenta un punto di svolta nella vicenda del romanzo, poiché in seguito all'incontro fra Lucia e l'innominato quest'ultimo matura il ravvedimento che porterà alla sua conversione e alla successiva liberazione della giovane (dunque il bene inizia a prevalere sul male e i piani di don Rodrigo vanno a monte), d'altro canto Lucia pronuncia il voto di verginità che in seguito costituirà un grave ostacolo al suo ricongiungimento a Renzo e che verrà sciolto da padre Cristoforo solo nel cap. XXXVI. L'episodio ha una posizione centrale nella struttura del libro ed è evidente che solo l'intervento della Provvidenza divina consente un felice scioglimento della vicenda di Lucia, poiché essa illumina l'anima del bandito attraverso le preghiere della giovane prigioniera.

Il momento saliente del capitolo è ovviamente la duplice notte angosciosa vissuta da Lucia e dall'innominato, che avendo cause diverse si chiude anche in modo opposto: la ragazza trova conforto nel voto pronunciato alla Vergine e riesce alla fine a prendere sonno, invece il bandito è oppresso dalla coscienza dei crimini compiuti ed è in preda alla più tetra disperazione, sfiorando l'idea del suicidio (lo trattiene, tra gli altri, il dubbio che forse c'è una vita oltre la morte e un giudizio divino). Ancora una volta la notte viene presentata come momento di inquietudine e incertezza per un personaggio, come già avvenuto per Renzo durante la fuga (cap. XVII) e come accadrà per don Rodrigo ammalato di peste (XXXIII).

La notte tragica dell'innominato è una delle pagine più famose del romanzo, un raro esempio di finezza psicologica e verosimiglianza nel descrivere il rovello interiore che non dà pace al bandito e lo porta alla disperazione: il capitolo si conclude con un'atmosfera di "sospensione", nel momento in cui il bandito sente lo scampanio e vede i fedeli che accorrono dal cardinal Borromeo, la cui presenza nel vicino paese verrà spiegata all'inizio del cap. XXII (sarà l'incontro con il prelato a compiere il ravvedimento morale intrapreso dall'innominato, poiché solo attraverso il confronto con un uomo che ha fama di santo il bandito arriverà a chiedere perdono a Dio per i suoi orrendi peccati).

La disperazione di Lucia prigioniera nel castello è parsa ad alcuni interpreti eccessiva, così come la frettolosa decisione di pronunciare il voto con cui di fatto rinuncia al suo amore per Renzo: l'episodio ha un'indubbia funzione narrativa, poiché pone un ulteriore ostacolo sulla strada della felicità dei due promessi, ma è in fondo coerente col personaggio di Lucia quale è apparso finora, ovvero quello di una giovane religiosissima e piena di verecondia e timore (lo stesso Nibbio l'aveva definita "un pulcin bagnato che basisce per nulla", cap. XX), senza contare che la prospettiva di finire nelle mani di don Rodrigo la riempie di terrore (a Gertrude aveva detto di preferire la morte piuttosto che "cader nelle sue mani", cap. IX). Sul punto si veda oltre.

Il Nibbio gioca un ruolo secondario ma decisivo, per certi versi, nel ravvedimento dell'innominato: dice infatti al padrone che Lucia gli ha fatto compassione, provocando lo stupore del bandito e suscitando in lui la curiosità di incontrare la prigioniera, fatto che provocherà poi la sua angoscia e il successivo pentimento. Diversa invece la parte della vecchia, già apparsa nel cap. precedente e vera macchietta comica: succube del suo padrone, fa di tutto per obbedirgli anche se in modo goffo e involontariamente ridicolo, mentre mostra un attaccamento quasi animalesco per i suoi bisogni materiali (soprattutto il cibo e le comodità).

La frase "tu non dormirai", che l'innominato crede di sentirsi rivolgere dall'immagine di Lucia tremante all'inizio della sua notte angosciosa, si ispira al Macbeth di W. Shakespeare, in cui il protagonista (Atto II, scena II) dopo aver assassinato re Duncan crede di sentire una voce che gli dice "Sleep no more!" (non dormirai più). La tragedia era citata da Manzoni anche nel cap. IV, nella descrizione del padre di Lodovico che vedeva comparire nella sua memoria il passato di mercante così come Macbeth vedeva "l'ombra di Banco".

TRAMA

La vecchia conduce Lucia nella propria stanza, al castello. Il Nibbio confessa all'innominato che Lucia gli ha ispirato compassione. L'innominato va a visitare Lucia e questa lo implora in ginocchio di liberarla. La giovane trascorre una notte di disperazione e pronuncia il voto di verginità alla Madonna. L'innominato è preda di angoscia e rimorsi, poi sente uno scampanio e vede i paesani che accorrono dal cardinal Borromeo.

GLOSSARIO

A tempo: secondo i piani

Alacrità: vivace fervore

Canaglia: disgraziato

Canto: all'angolo

Consentaneo: accordato

Covile di pruni: letto di rovi

Covo: giaciglio

Guazzabugli: immagini confuse

Incanti: lusinghe, parole gentili

Indarno: inutilmente

Non bene espresso: confuso

Rintoppasse: incontrasse

Sdegnata: irritata

Si risentì: si svegliò

Torna conto: conviene

Trasporto: entusiasmo

Un'immagine: immagine sacra

DOMANDE SULLA COMPRENSIONE DEL CAPITOLO:

1) Già l’ultima parte del capitolo XX ci parla di una «vecchia donna», che è figura di primo piano nel capitolo XXI. Leggi attentamente i passi che la riguardano e dimmi il tuo pensiero nei suoi confronti: provi disgusto, pietà, o cosa altro?



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