Capitolo XX
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
"...e si voltava, per accennar col dito; quando l'altro compagno (era il Nibbio), afferrandola d'improvviso per la vita, l'alzò da terra. Lucia girò la testa indietro atterrita, e cacciò un urlo; il malandrino la mise per forza nella carrozza: uno che stava a sedere davanti, la prese e la cacciò, per quanto lei si divincolasse e stridesse, a sedere dirimpetto a sé..."
CHI?
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È il signorotto del paese di Renzo e Lucia, un aristocratico che vive di rendita e abita in un palazzotto situato a metà strada tra il paese stesso e Pescarenico: personaggio malvagio del romanzo, si incapriccia di Lucia e decide di sedurla in seguito a una scommessa fatta col cugino Attilio, per poi intestardirsi in questo infame proposito al fine di non sfigurare di fronte agli amici nobili e, quindi, per ragioni di puntiglio cavalleresco. A questo scopo manda due bravi a minacciare il curato don Abbondio perché non celebri il matrimonio fra i due promessi (cap. I), e in seguito tenta senza successo di far rapire la ragazza dalla sua casa (VIII); si rivolgerà poi all'innominato per ritentare l'impresa quando la giovane è protetta nel convento di Gertrude, a Monza, ma l'inattesa conversione del bandito manderà a monte i suoi progetti criminosi (XX ss.). Riesce a far allontanare padre Cristoforo da Pescarenico tramite l'intervento del conte zio, che esercita indebite pressioni politiche sul padre provinciale dei cappuccini, e in seguito allo scandalo suscitato dalla conversione dell'innominato lascia il paese per trasferirsi a Milano, dove si ammala di peste e viene ricoverato al lazzaretto. Qui morirà, lasciandoci nel dubbio se si sia ravveduto o meno dei peccati commessi (ottiene comunque il perdono di Renzo, cui il nobile agonizzante viene mostrato da padre Cristoforo).
Viene presentato come un uomo relativamente giovane, con meno di quarant'anni (ci viene detto nel cap. VI, quando è presentato il servitore che informerà padre Cristoforo del progettato rapimento di Lucia) e di lui non c'è una vera e propria descrizione fisica; appartiene a una famiglia di antico blasone, come dimostra l'appartenenza ad essa del conte zio, membro del Consiglio Segreto e politico influente, anche se il nome del casato non viene mai fatto. Non sappiamo molto del suo passato, salvo il fatto che il padre era uomo di tempra ben diversa e Rodrigo, rimasto erede del suo patrimonio, si è dimostrato figlio degenere. Alla fine della vicenda verrà introdotto il suo erede, un marchese che entra in possesso di tutti i suoi beni e che, su suggerimento di don Abbondio, acquisterà le terre di Renzo e Agnese a un prezzo molto alto, per risarcirli dei danni subìti e consentir loro di trasferirsi nel Bergamasco; in seguito fa anche in modo che la cattura che pesa su Renzo venga annullata, dimostrando quindi di essere un galantuomo ben diverso dal suo defunto parente.
Don Rodrigo è ovviamente un malvagio, ma mediocre e di mezza tacca, come più volte è evidenziato nel romanzo: la sua persecuzione ai danni di Lucia non nasce da un'ossessione amorosa, ma è più un atto di prepotenza sessuale di un nobile su una povera contadina, oltretutto a causa di una sciocca scommessa fatta col cugino; egli è il rappresentante di quella aristocrazia oziosa e improduttiva che Manzoni critica spesso e che esercita soprusi sui deboli più per passatempo che per crudeltà gratuita. Compare per la prima volta direttamente solo nel cap. V, dopo che il suo nome è stato più volte evocato e sempre associato a un'aura di terrore, mentre alla sua apparizione il personaggio risulterà assai deludente. Don Rodrigo si mostra timoroso della giustizia e delle leggi, il che lo porta a cercare l'appoggio e la complicità di importanti magistrati come il podestà di Lecco, o di legali come il dottor Azzecca-garbugli, mentre nutre un sincero terrore per tutto ciò che riguarda la religione e l'aldilà, come è evidente nel colloquio con padre Cristoforo nel cap. VI (la frase "Verrà un giorno..." pronunciata dal cappuccino col dito puntato scatena la sua ira e tale gesto ricorrerà nel sogno del cap. XXXIII, quando il nobile si scoprirà ammalato di peste). La piccolezza morale del personaggio è sottolineata nella scena del cap. XI, quando il signorotto attende con impazienza il ritorno dei bravi inviati a rapire Lucia e pensa tra sé alle possibili conseguenze di quell'atto scellerato (soprattutto, pensa alla protezione che l'amico podestà e il nome della famiglia potranno assicurargli) e la sua grettezza emergerà poi nel confronto con l'innominato, personaggio che dimostra una notevole statura morale tanto nella malvagità quanto nel successivo ravvedimento (per approfondire: L. Russo, Don Rodrigo uomo senza originalità e grandezza).
Nel Fermo e Lucia la fine del personaggio era decisamente diversa, poiché Rodrigo (moribondo per la peste e in preda al delirio) balzava su un cavallo dopo aver visto Lucia e lo spronava al galoppo, cadendo rovinosamente e morendo così sicuramente in disgrazia (nei Promessi Sposi, invece, la notizia della sua morte giunge al paese solo nel cap. XXXVIII; si veda il brano La morte di don Rodrigo).
DOVE?
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È l'inespugnabile fortezza in cui vive e opera l'innominato, situata in un punto imprecisato lungo il confine tra il Milanese e il Bergamasco e distante non più di sette miglia dal palazzotto di don Rodrigo: il luogo è descritto all'inizio del cap. XX, quando il signorotto vi si reca per chiedere l'aiuto del potente bandito nel rapimento di Lucia e fin dall'inizio si presenta come un castello truce e sinistro, specchio fedele della personalità del signore che vi risiede. Infatti sorge in cima a un'erta collina al centro di una valle "angusta e uggiosa" che è a cavallo del confine dei due stati, accessibile solo attraverso un sentiero tortuoso che si inerpica verso l'alto e che è dominato dagli occupanti del castello, che sono dunque al riparo dall'assalto di qualunque nemico; il castello è come un nido di aquile in cui l'innominato non ha nessuno al di sopra di sé e da dove può dominare anche fisicamente su tutto il territorio circostante, di cui egli è considerato l'assoluto padrone (i pochi birri che si sono avventurati lì sono stati uccisi e nessuno oserebbe addentrarvisi senza essere amico del bandito).
All'inizio del sentiero che conduce in alto c'è un'osteria che funge da corpo di guardia, la quale, a dispetto dell'insegna che mostra un sole splendente, è nota come la Malanotte e in cui stazionano bravi dell'innominato armati fino ai denti: qui si ferma don Rodrigo quando giunge insieme ai suoi sgherri e viene precisato che nessuno può salire al castello armato, per cui il signorotto deve consegnare ai bravi il suo schioppo. In seguito viene accompagnato all'interno della fortezza e percorre una serie di oscuri corridoi, con bravi di guardia ad ogni stanza e varie armi appese alle pareti (moschetti, sciabole, armi da taglio...), mentre la sala in cui avviene l'incontro con l'innominato non presenta dettagli rilevanti, cosa che può dirsi anche per altri "interni" che appariranno nei successivi episodi.
Dopo il rapimento (XX) Lucia è condotta da Monza al castello in carrozza (il viaggio dura più di quattro ore) e una volta che il veicolo è giunto ai piedi del sentiero che sale alla fortezza, di fronte alla Malanotte, esso non può proseguire a causa dell'erta ripida e la giovane è trasferita su di una portantina insieme alla vecchia serva dell'innominato. Questa conduce poi Lucia nella sua stanza (XXI), cui si accede tramite una "scaletta" e dove poco dopo giunge anche l'innominato; la stanza è spoglia e non presenta alcuna descrizione particolare, così come la camera in cui dorme il bandito e che viene mostrata dopo, della quale si dice solo che ha una finestra che si affaccia sul lato destro del castello, verso lo sbocco della valle (da lì l'uomo vede la gente che accorre dal cardinal Borromeo, giunto in visita pastorale al vicino paesetto che non dev'essere troppo lontano da quello dei due promessi, dal momento che fra i curati presenti c'è anche don Abbondio).
Questi percorre in seguito la salita al castello in groppa a una mula, insieme all'innominato e a una lettiga che trasporta la moglie del sarto del paese, con il compito di rincuorare Lucia nel momento in cui verrà liberata (XXIII): una volta giunti alla fortezza i due sono fatti entrare e apprendiamo che vi sono due cortili, uno più esterno e un altro interno. Sulla strada del ritorno il curato osserva con una certa apprensione lo strapiombo del dirupo che è costretto a rasentare e maledice la mula in quanto procede sul ciglio del burrone, tirando infine il fiato solo quando è fuori da quella valle dalla fama sinistra (XXIV).
Lo stesso don Abbondio, Agnese e Perpetua torneranno lì molti mesi dopo, per cercare rifugio nel castello a causa della calata in Lombardia dei lanzichenecchi, durante la guerra di Mantova (XXIX): l'innominato ha già raccolto al castello molti uomini e ha disposto armati e posti di guardia in vari punti della valle, cosicché il luogo è perfettamente difeso. I tre giungono alla Malanotte a bordo di un baroccio procurato dal sarto (XXX) e qui trovano un folto gruppo di armati, quindi procedono a piedi lungo la salita e Agnese rabbrividisce al pensiero che la figlia ha percorso quella stessa strada prigioniera dei bravi. Vengono accolti benevolmente dall'innominato che offre loro ospitalità e le donne vengono sistemate in un quartiere a parte, che occupa tre lati del cortile più interno del castello (nella parte posteriore dell'edificio, a strapiombo su un precipizio); il corpo centrale che unisce il cortile interno a quello esterno è occupato da masserizie e provviste, mentre nel quartiere destinato agli uomini ci sono alcune camere riservate agli ecclesiastici e don Abbondio è il primo a occuparne una. Lui e le due donne si trattengono al castello "ventitré o ventiquattro giorni", quindi, nel momento in cui il pericolo dei lanzichenecchi è cessato, l'innominato li accompagna di persona alla Malanotte dove fa trovare una carrozza, e questa li porta poi al loro paese. È questa l'ultima apparizione dell'innominato nel romanzo e lo stesso può dirsi anche del suo castello.
Il luogo è stato giustamente interpretato come un riflesso "simbolico" dell'indole del suo signore, che vive nella sua solitudine asserragliato su un'alta montagna e rende il proprio maniero inaccessibile a chiunque non voglia fare avvicinare: tale è la condizione dell'innominato sino al ravvedimento, poi è lui stesso a scendere dall'altura per incontrare il cardinale e giungere alla conversione, per cui il castello è in certo qual modo immagine dell'isolamento del peccato che l'uomo spezza andando a parlare con il Borromeo. Data l'identificazione tra il personaggio manzoniano e la figura storica di Francesco Bernardino Visconti, si pensa che il suo castello fosse quello i cui resti sorgono ancora nella cittadina di Vercurago, sulla strada che un tempo collegava Bergamo a Lecco (rimangono in piedi un torrione e parte della cinta muraria).
QUANDO?
RIASSUNTO
Al castello dell’Innominato giunge così don Rodrigo. Gli chiede di far rapire Lucia e l'Innominato accetta, sapendo di poter contare sull'aiuto di Egidio, l'amante di Gertrude. Lasciato andare via don Rodrigo, l'Innominato ripensa ai suoi molti crimini e sembra terrorizzato dall'idea di un giudizio divino. Anche il pensiero del rapimento di Lucia lo preoccupa parecchio; ma pur di mettere a tacere la voce della propria coscienza, invia subito il Nibbio, il capo dei suoi bravi, da Egidio per predisporre il piano.
Convinta così da Egidio a farsi complice del rapimento, Gertrude riesce a mandare Lucia fuori dal convento con la scusa di portare un messaggio al padre guardiano dei cappuccini. Nei pressi di una strada solitaria, Lucia viene avvicinata con l'inganno dai bravi dell'Innominato e caricata a forza su una carrozza. Lucia prega i suoi rapitori che la lascino andare rivolgendo le sue preghiere a Dio. Nel vedere la carrozza che si avvicina alla Malanotte, l'Innominato è tentato di sbarazzarsi subito di Lucia e di farla portare immediatamente da don Rodrigo. Ma la sua coscienza gli consiglia di non farlo e di tenere la fanciulla presso di sé per poco tempo.
TEMI PRINCIPALI TRATTATI NEL CAPITOLO
La descrizione iniziale del castello dell'innominato è uno dei passi più celebri del romanzo e mostra il luogo sinistro come il "nido di aquila" in cui il bandito vive nella sua solitudine feroce e come una fortezza inespugnabile dove l'uomo consuma i suoi delitti senza avere nessuno sopra di sé, dominando anche fisicamente la regione circostante. È stato osservato che la tana del potente bandito suscita un'impressione ben più imponente del modesto palazzo di don Rodrigo, descritto nel cap. V come un piccolo fortilizio dall'aspetto trasandato e decadente.
I nomi dei bravi che accompagnano don Rodrigo sono molto espressivi e ad alcuni critici ricordano quelli dei demoni Malebranche che compaiono nei canti XXI-XXII dell'Inferno dantesco: il Tiradritto aveva già accompagnato il Griso a Monza, mentre lo Squinternotto ("squinternato") e il Tanabuso (deformazione dialettale di "tarabuso", un uccello rapace) compaiono in alcune gride del XVII secolo.
Il colloquio tra don Rodrigo e l'innominato è riassunto in un sintetico discorso indiretto, mentre nel Fermo e Lucia era assai più ampio e infarcito di termini spagnoleggianti con cui il signorotto lusingava il potente alleato, e ai quali l'uomo rispondeva con un atteggiamento di sprezzante superiorità: la scena, piuttosto forzata e poco convincente sul piano narrativo, venne quasi del tutto eliminata nella redazione definitiva del romanzo (cfr. il brano Il Conte del Sagrato e don Rodrigo).
Apprendiamo che Egidio, l'amante di Gertrude già protagonista dell'assassinio della conversa narrato nel cap. X, è complice dell'innominato e ciò risulterà decisivo nel convincere la "Signora" a tradire Lucia e consegnarla nelle mani dei suoi rapitori: come già in precedenza, viene sottolineato il carattere debole della monaca, la quale, pur inorridita all'idea di fare del male alla ragazza, non riesce ad opporsi al suo amante e maestro di delitti, alla cui "scola infernale" ha imparato a mentire e ingannare chi si fida di lei (delicata e terribile la similitudine con il pastore che accarezza la pecora prima di consegnarla al macellaio, che qualifica Lucia come personaggio puro e innocente a fronte della perversità di Gertrude). Rispetto al Fermo e Lucia, in cui il dialogo con Egidio era narrato con abbondanza di particolari e riferimenti al delitto della suora, qui esso è riassunto in una frase ("le impose... il sagrifizio dell'innocente che aveva in custodia") e lo stesso delitto è accennato con una velata allusione. Per approfondire: A. Zottoli, La debolezza di Gertrude.
Il vero protagonista dell'episodio è l'innominato, già preda di dubbi e angosce prima di incontrare don Rodrigo e poi sempre più incerto sul compimento di quest'impresa scellerata, che è sul punto di abbandonare più volte (l'autore prepara il terreno alla crisi di coscienza e al ravvedimento dei capp. successivi, che sarebbero poco credibili se non fossero il frutto di una lenta maturazione interiore). L'uomo è tormentato soprattutto dall'idea della morte inevitabile, che diventa quasi la costante di tutti i suoi pensieri (anche la carrozza che osserva dalla finestra è detta avanzare "col passo della morte") e insinua in lui il timore di un giudizio divino che sente come ineluttabile.
Entra in scena il Nibbio, il luogotenente dell'innominato cui il bandito affida il compito di rapire Lucia e che avrà una parte non secondaria nell'aggravare i dubbi morali del suo padrone (cap. XXI). Già durante il rapimento mostra un lato "umano" sconosciuto agli altri bravi, cercando di rincuorare Lucia come poi farà lo stesso innominato.
Il personaggio della vecchia è forse una delle "macchiette" più riuscite del romanzo ed è, al tempo stesso, una delle figure più negative e odiose: servile e sottomessa al suo padrone, ha perso qualunque remora di tipo morale e mostra un egoismo e un attaccamento alle cose materiali senza pari, specie quando si renderà conto che l'innominato prova compassione per Lucia (è talmente grottesca nei suoi atteggiamenti che non solo non farà coraggio alla giovane come le è stato ordinato, ma le incuterà ancora più timore).
TRAMA
GLOSSARIO
A gomiti e a giravolte: con continui tornanti
Adempimento: conseguenze
Allevato alle forche: cresciuto tra i crimini
Armato come un saracino: armato fino ai denti
Basisce: sviene
Bussola: portantina
Cagionati: procurati
Cigolini: precipizi
Col passo della morte: molto lentamente
Emulazione: imitazione
Erto: ripido
Facendo l'indiano: facendo finta di nulla
Falde: pendii
Fessi: fessure
Impetrata: ottenuta
La massima principale: l'insegnamento più importante
Masnada: schiera di uomini
Nerborute: muscolose
Partigiane: picche con punta a due taglienti
Per balocco: come un giocattolo
Poggio: piccolo rilievo, piccolo monte
Rodimento: fastidio
Scemare: venire meno
Tane: buchi
Tegoli: tegole
Torbido: sporco, scuro
Travisati: travestiti
Tromboni: archibugi, fucili
Uggia: fastidio, noia
DOMANDE SULLA COMPRENSIONE DEL CAPITOLO:
1) Qual è la similitudine che indica con chiarezza il carattere dell’Innominato? Cercala e trascrivila, ricordando un’altra similitudine che si riferisca a un personaggio a te noto, e il capitolo.
2) Cerca e trascrivi gli aggettivi usati dal Manzoni per indicare l’aspetto fisico dell’Innominato: è facile trovarne di più efficaci?
3) Quali sono le «paure» che da qualche tempo travagliano il superbo Innominato? Elencale e commenta questo inaspettato atteggiamento.
4) Cosa lega la monaca di Monza al suo amante e quale avvenimento ne ha fatto definitivamente la sua schiava? Tenta ella almeno una volta di liberarsi da ciò?