Capitolo XIX
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
"Di costui non possiam dare né il nome, né il cognome, né un titolo, e nemmeno una congettura sopra nulla di tutto ciò. Fare ciò ch'era vietato dalle leggi, o impedito da una forza qualunque; esser arbitro, padrone degli affari altrui, senz'altro interesse che il gusto di comandare; esser temuto da tutti, aver la mano da coloro ch'eran soliti averla dagli altri; tali erano state in ogni tempo le passioni principali di costui..."
CHI?
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È il signorotto del paese di Renzo e Lucia, un aristocratico che vive di rendita e abita in un palazzotto situato a metà strada tra il paese stesso e Pescarenico: personaggio malvagio del romanzo, si incapriccia di Lucia e decide di sedurla in seguito a una scommessa fatta col cugino Attilio, per poi intestardirsi in questo infame proposito al fine di non sfigurare di fronte agli amici nobili e, quindi, per ragioni di puntiglio cavalleresco. A questo scopo manda due bravi a minacciare il curato don Abbondio perché non celebri il matrimonio fra i due promessi (cap. I), e in seguito tenta senza successo di far rapire la ragazza dalla sua casa (VIII); si rivolgerà poi all'innominato per ritentare l'impresa quando la giovane è protetta nel convento di Gertrude, a Monza, ma l'inattesa conversione del bandito manderà a monte i suoi progetti criminosi (XX ss.). Riesce a far allontanare padre Cristoforo da Pescarenico tramite l'intervento del conte zio, che esercita indebite pressioni politiche sul padre provinciale dei cappuccini, e in seguito allo scandalo suscitato dalla conversione dell'innominato lascia il paese per trasferirsi a Milano, dove si ammala di peste e viene ricoverato al lazzaretto. Qui morirà, lasciandoci nel dubbio se si sia ravveduto o meno dei peccati commessi (ottiene comunque il perdono di Renzo, cui il nobile agonizzante viene mostrato da padre Cristoforo).
Viene presentato come un uomo relativamente giovane, con meno di quarant'anni (ci viene detto nel cap. VI, quando è presentato il servitore che informerà padre Cristoforo del progettato rapimento di Lucia) e di lui non c'è una vera e propria descrizione fisica; appartiene a una famiglia di antico blasone, come dimostra l'appartenenza ad essa del conte zio, membro del Consiglio Segreto e politico influente, anche se il nome del casato non viene mai fatto. Non sappiamo molto del suo passato, salvo il fatto che il padre era uomo di tempra ben diversa e Rodrigo, rimasto erede del suo patrimonio, si è dimostrato figlio degenere. Alla fine della vicenda verrà introdotto il suo erede, un marchese che entra in possesso di tutti i suoi beni e che, su suggerimento di don Abbondio, acquisterà le terre di Renzo e Agnese a un prezzo molto alto, per risarcirli dei danni subìti e consentir loro di trasferirsi nel Bergamasco; in seguito fa anche in modo che la cattura che pesa su Renzo venga annullata, dimostrando quindi di essere un galantuomo ben diverso dal suo defunto parente.
Don Rodrigo è ovviamente un malvagio, ma mediocre e di mezza tacca, come più volte è evidenziato nel romanzo: la sua persecuzione ai danni di Lucia non nasce da un'ossessione amorosa, ma è più un atto di prepotenza sessuale di un nobile su una povera contadina, oltretutto a causa di una sciocca scommessa fatta col cugino; egli è il rappresentante di quella aristocrazia oziosa e improduttiva che Manzoni critica spesso e che esercita soprusi sui deboli più per passatempo che per crudeltà gratuita. Compare per la prima volta direttamente solo nel cap. V, dopo che il suo nome è stato più volte evocato e sempre associato a un'aura di terrore, mentre alla sua apparizione il personaggio risulterà assai deludente. Don Rodrigo si mostra timoroso della giustizia e delle leggi, il che lo porta a cercare l'appoggio e la complicità di importanti magistrati come il podestà di Lecco, o di legali come il dottor Azzecca-garbugli, mentre nutre un sincero terrore per tutto ciò che riguarda la religione e l'aldilà, come è evidente nel colloquio con padre Cristoforo nel cap. VI (la frase "Verrà un giorno..." pronunciata dal cappuccino col dito puntato scatena la sua ira e tale gesto ricorrerà nel sogno del cap. XXXIII, quando il nobile si scoprirà ammalato di peste). La piccolezza morale del personaggio è sottolineata nella scena del cap. XI, quando il signorotto attende con impazienza il ritorno dei bravi inviati a rapire Lucia e pensa tra sé alle possibili conseguenze di quell'atto scellerato (soprattutto, pensa alla protezione che l'amico podestà e il nome della famiglia potranno assicurargli) e la sua grettezza emergerà poi nel confronto con l'innominato, personaggio che dimostra una notevole statura morale tanto nella malvagità quanto nel successivo ravvedimento (per approfondire: L. Russo, Don Rodrigo uomo senza originalità e grandezza).
Nel Fermo e Lucia la fine del personaggio era decisamente diversa, poiché Rodrigo (moribondo per la peste e in preda al delirio) balzava su un cavallo dopo aver visto Lucia e lo spronava al galoppo, cadendo rovinosamente e morendo così sicuramente in disgrazia (nei Promessi Sposi, invece, la notizia della sua morte giunge al paese solo nel cap. XXXVIII; si veda il brano La morte di don Rodrigo).
DOVE?
illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840
È la residenza di don Rodrigo, il signorotto che esercita il suo dominio sul paese dei due promessi, e sorge come una piccola fortezza squadrata su un'altura, a circa tre miglia dal paese e a quattro dal convento di Pescarenico: è descritto nel cap. V, quando padre Cristoforo si reca lì per parlare con il nobile nel vano tentativo di farlo recedere dai suoi propositi su Lucia, e si dice che ai piedi dell'altura c'è un minuscolo villaggio di contadini che dipendono da don Rodrigo e rappresenta "la piccola capitale del suo piccol regno". Il villaggio è abitato da sgherri e uomini armati, le cui donne hanno un aspetto maschio e vigoroso, mentre una piccola strada a tornanti conduce in alto al palazzo: questo appare al cappuccino come una casa silenziosa, quasi disabitata, con l'uscio sprangato e piccole finestre chiuse da imposte sconnesse e consunte dal tempo, protette da robuste inferriate e tanto alte, almeno quelle del pian terreno, da impedire di arrivarvi facilmente (il luogo è dunque un piccolo castello ben difeso e protetto). Sulla porta sono inchiodate le carcasse di due avvoltoi, uno dei quali "spennacchiato e mezzo roso dal tempo", mentre due bravi montano la guardia sdraiati su panche poste ai lati dell'uscio. L'interno dell'edificio non è mai descritto in modo dettagliato, salvo col dire che è la residenza signorile di un nobile e lasciando intendere che vi sono molte sale e salotti: ci viene mostrata direttamente la sala da pranzo, dove don Rodrigo è a tavola coi suoi convitati nel momento in cui riceve la visita di padre Cristoforo (cap. V), quindi un'altra sala appartata dove si svolge il successivo colloquio col cappuccino (VI) e della quale ci verrà detto più avanti che sulle pareti campeggiano i ritratti degli antenati del signorotto (VII).
Il palazzo viene citato ancora alla fine del cap. VIII, quando Renzo, Agnese e Lucia lasciano il paese sulla barca e osservano il paesaggio, su cui il palazzo del signorotto domina dall'alto con un aspetto truce e sinistro. Il luogo ritorna alla fine della vicenda (XXXVIII), quando don Rodrigo è ormai morto di peste e in paese è giunto il marchese suo erede, per prendere possesso dei suoi beni: il gentiluomo, personaggio moralmente retto e di vecchio stampo, decide di aiutare i due promessi e li riceve nell'edificio, dove Renzo e Lucia entrano accompagnati da don Abbondio, Agnese e dalla mercantessa (il nobile acquisterà a un prezzo assai alto le terre di Renzo e Agnese, dunque consentirà loro di trasferirsi nel Bergamasco senza problemi economici).
QUANDO?
RIASSUNTO
Il Conte zio organizza un pranzo al quale vengono invitati alcuni nobili milanesi. Durante il banchetto il Conte, parlando con il padre provinciale, insinua che fra Cristoforo abbia appoggiato Renzo nell'azione rivoltosa del tumulto milanese. Il religioso assicura che farà trasferire Cristoforo in cambio di una prova d'amicizia verso il convento di Pescarenico da parte di don Rodrigo. Al convento di Pescarenico arriva, così, l'ordine di trasferimento per padre Cristoforo. Appresa la volontà del padre provinciale, il frate parte per Rimini.
Si apre qui una nuova figura importante per il romanzo e dai tratti davvero oscuri: viene così narrata brevemente la storia dell'Innominato, le sue azioni violente, il suo atteggiamento indifferente verso la legge, verso la morale e la religione. Viene inoltre descritto in maniera molto veloce il suo castello, posto sul confine tra il Milanese e la Repubblica di Venezia, in modo da poter trovare rifugio nell'uno o nell'altro stato. Don Rodrigo interpella così questo personaggio e, alla fine, richiede e ottiene il suo aiuto per rapire Lucia e per andare al suo castello con un seguito di bravi.TEMI PRINCIPALI TRATTATI NEL CAPITOLO
Il capitolo è diviso in due parti, la prima delle quali mostra le trame con cui il conte zio fa in modo di allontanare padre Cristoforo da Pescarenico, mentre la seconda è dedicata al ritratto dell'innominato, il personaggio che entrerà in scena nel cap. XX e che svolgerà un ruolo centrale nelle successive vicende del romanzo. L'episodio si concentra interamente sulle trame dei "malvagi" per ottenere i loro scopi, infatti gli unici personaggi principali che vi compaiono sono padre Cristoforo e don Rodrigo, sia pure attraverso rapidi cenni.
Il colloquio tra il conte zio e il padre provinciale dei cappuccini è un piccolo capolavoro di retorica, che mostra i giri di parole, le allocuzioni, le insinuazioni e l'arte della simulazione di cui si sostanzia la politica, cosa che Manzoni naturalmente condanna (si veda oltre). L'autore mostra in azione l'uomo politico e gli fa esprimere tutte le qualità negative che aveva descritte nella sua presentazione avvenuta nel cap. XVIII, prima dell'incontro col conte Attilio.
Padre Cristoforo accetta con rassegnazione e umiltà l'ordine di lasciare Pescarenico, rammaricandosi di non poter più aiutare i suoi protetti ma confidando nell'aiuto di Dio del quale lui è stato un semplice esecutore: non riapparirà più nelle vicende del romanzo, sino al cap. XXXV quando Renzo lo troverà al lazzaretto durante la peste, dove ha chiesto di essere mandato per accudire i malati (ci verrà detto che il conte zio, nel frattempo, è morto). Il frate lascia il convento portando con sé il "pane del perdono", nominato nel cap. IV e simbolo del perdono ottenuto dal fratello dell'uomo da lui ucciso durante il duello. Ovviamente la sequenza che narra la sua partenza, così come il dialogo tra il conte zio e il padre provinciale, è un flashback rispetto al colloquio tra Agnese e fra Galdino nel cap. XVIII.
La seconda parte del capitolo è quasi interamente dedicata al ritratto dell'innominato, il potente bandito la cui identità non viene rivelata ma che certamente adombra la figura storica di Francesco Bernardino Visconti: l'autore traccia la sua biografia facendo risaltare la sua sinistra grandiosità e sottolineando nel finale la differenza tra lui e don Rodrigo, malvagio di mezza tacca che ricorre al suo aiuto per riuscire a spuntarla in un'impresa troppo rischiosa, ma che non tiene a pubblicizzare la sua amicizia col famoso criminale in quanto desideroso di avere dalla sua parte i poteri pubblici e la giustizia. Tale differenza risulterà ancor più evidente nei successivi capitoli, specie dopo la clamorosa conversione dell'innominato (per approfondire: L. Russo, Don Rodrigo).
L'innominato compariva già nel Fermo e Lucia, col nome però di Conte del Sagrato che gli era stato affibbiato dopo il brutale omicidio di un uomo sul sagrato di una chiesa: l'episodio era descritto con ampiezza di particolari macabri e nella redazione definitiva del romanzo è stato eliminato (cfr. il brano L'assassinio sul sagrato).
TRAMA
GLOSSARIO
Alla staffa: di fianco
Cacce del toro: le corride
Con un intendimento sopraffino: con una cura particolare
Cozzare: scontrarsi
Fio: punizione, castigo
In arbitrio: in potere
In onta: senza preoccuparsi di
In treno da caccia: vestito come se dovesse andare a caccia
Intestato: intestardirsi, incaponirsi, impuntarsi
L'adito: l'accesso, la possibilità
Lapazio: acetosella (erba comune dai fiori gialli)
L'obbedienza: lettera con nuova destinazione
Non veniva in taglio: non era adatto
Per tutti i buchi: nelle innumerevoli stanze
Positivamente: con dati concreti, veritieri
Sperticate: sfacciatamente esagerate
Sudario: parte del saio vicina il collo
Summentovato: sopra citato
Un genio: un'abitudine innata
Un impiastro: unguento medicamentoso
Un'ambasciata d'impudenze: una serie di parolacce e insulti
Vacato: lasciato libero
DOMANDE SULLA COMPRENSIONE DEL CAPITOLO:
1) Nel colloquio col padre provinciale è chiaro che il conte zio usa una serie di argomenti diversi per convincere il padre stesso ad allontanare padre Cristoforo: elencali.
2) «Due potestà, due canizie, due esperienze consumate...»: così il Manzoni definisce il padre provinciale e il conte zio, tu cosa pensi di questi due e del loro comportamento, come ti appare la definizione del Manzoni?
3) «Sopire, troncare... troncare, sopire»: così dice il conte zio e la violenza morale contro padre Cristoforo viene consumata: quei «clienti», inizio del capitolo, che dicevan di sì «con la bocca, con gli occhi, con gli orecchi...» ti paiono in un certo senso colpevoli anch’essi di ciò che succede? Ricordi altri convitati che somigliano a questi?
4) L’Innominato: trascrivi le frasi che meglio indicano il suo carattere e commentale.
5) Fra l’Innominato, fiero e coraggioso pur nella sua malvagità, e don Rodrigo, ambiguo e sostanzialmente pauroso, chi preferisci e perché? Leggi attentamente la fine del capitolo prima di rispondere.