RIASSUNTO
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È il 7 novembre 1628, su una stradina lungo la sponda del lago di Como, cammina una solitaria figura vestita di nero intenta a pregare, don Abbondio.
Mentre procedeva con passo lento e immerso nei suoi pensieri, improvvisamente l’apparizione di due bravi, due brutti tipi al servizio di un signorotto spagnolo molto potente, don Rodrigo, interrompono la sua preghiera e il suo vagare solitario.
Dopo una singolare descrizione dei bravi e di tutto quello che gira intorno al loro mondo, Manzoni comincia a raccontare il colloquio tra i bravi e lo sfortunato prete di paese: questi gli dicono che, in nome del loro potente padrone, il matrimonio fra Renzo e Lucia “non s’ha da fare!”.
Don Abbondio, spaventato, assicura la propria fedeltà al signorotto spagnolo promettendo che non lo celebrerà, nonostante fosse già fissato, inventandosi prontamente una scusa.
Questo atteggiamento debole viene visto e riconsiderato alla luce della giustizia del seicento, dove le minacce erano frequenti e sempre impunite, e viene sottolineata la natura debole e paurosa del curato.
Conclusa questa riflessione dell’autore, si torna alla narrazione con il ritorno a casa di don Abbondio, che racconta il suo incontro alla sua perpetua che, neanche farlo apposta, si chiama proprio Perpetua.
La notte, per il curato, trascorre tormentata e piena d’incubi, ma nonostante ciò gli dà il tempo necessario per architettare un piano in favore di don Rodrigo: come prima cosa è necessario rinviare quelle nozze. Questo porta alla prima difficoltà: respingere il primo ostacolo, Renzo, che di buon mattino, si reca dallo sfortunato prete per concordare l'ora del matrimonio. La data, invece, era stata decisa già da tempo dallo stesso Don Abbondio che dapprima si finge sorpreso, poi inventa una serie di scuse di ordine giuridico amministrativo. Don Abbondio sostiene di non essere riuscito a preparare in tempo tutti i documenti necessari prescritti dalla Chiesa. Comunque non era un dramma irreparabile rimandare di alcuni giorni.
Renzo esce dalla casa del curato molto nervoso, ma fuori trova ad aspettarlo Perpetua, la quale non vede l'ora di dirgli tutto. Perpetua dice a Renzo la vera causa del rinvio. Così Renzo si precipita nella stanza del curato e si fa dire il nome dell'uomo che si oppone al matrimonio. Sconsolato, Renzo va da Lucia per comunicarle la brutta notizia. Gli invitati sono allontanati con la scusa che il matrimonio non si fa per malattia del prete. E infatti è così: don Abbondio, minacciato prima dai bravi poi da Renzo, si fa venire la febbre.
Intanto nella sua casa tutto è sbarrato come se fosse imminente un attacco. Perpetua, affacciata da una finestra, confermava a tutti la triste notizia: Don Abbondio è ammalato.
Lucia, rimasta sola con la madre Agnese e Renzo, racconta di avere suscitato l’interesse di don Rodrigo e come probabilmente sia nata la cosa. I tre, consigliati fortemente dalla saggia e semplice Agnese, decidono di rivolgersi ad un avvocato, l’Azzeccagarbugli. Renzo sente riaccendersi un barlume di speranza e, presi con sé tre tra i capponi migliori, si dirige dall’avvocato. Quest’ultimo, durante l’incontro con Renzo, pensa, sbagliando, che invece di avere subito un torto, sia egli stesso un bravo che ha fatto qualcosa di brutto e che cerca di evitare la punizione. Perciò pensa immediatamente di aiutarlo, ma non appena scopre che invece si tratta di una vittima di don Rodrigo, rifiuta l’incarico senza dare spiegazioni, spaventato della potenza e influenza di don Rodrigo.
Mentre Renzo cerca di venirne a capo dall’Azzeccagarbugli, Lucia insiste con la madre per parlare con fra Cristoforo, un frate cappuccino in cui ha molta fiducia. Mentre le due donne pensano come fare a parlare con il frate, ne entra in casa un altro, fra Galdino, che chiede delle noci per il suo convento e che racconta alle donne una storia sul perché vengono donate delle noci ai Cappuccini. Lucia decide così di dare a fra Galdino un messaggio per fra Cristoforo.
Tornato Renzo, deluso per l’incontro con l’avvocato e arrabbiato per l’esito, si apre la scena dove le due donne cercano di calmarlo e gli dicono che hanno chiesto l’intervento di fra Cristoforo. Intanto è già sera e i tre devono salutarsi.
Padre Cristoforo esce dal convento di Pescarenico, un piccolo villaggio di pescatori nei pressi di Lecco. Sebbene il paesaggio autunnale sia splendido, il cammino del frate verso casa di Lucia è reso infelice dalle immagini di miseria lungo il percorso: persone povere, animali smagriti dalla fame, mendicanti sporchi e con i vestiti strappati.
Lui era un uomo di 60 anni circa, dalla lunga barba bianca, umile ma con due occhi molto vispi (come sottolinea bene il Manzoni, dando fin da subito una chiara descrizione del temperamento del frate). Lodovico, così si chiamava prima di prendere i voti, era figlio di un ricco mercante che viene educato alla maniera degli aristocratici del tempo. Non essendo però visto bene nel gruppo dei nobili, inizia a difendere gli umili a dispetto dei prepotenti. Un giorno per strada, scoppia una disputa tra Lodovico ed un nobile arrogante. Nello scontro, Ludovico, vedendo il suo servo fidato, Cristoforo, ucciso dal giovane nobile, colpisce a sua volta il signorotto uccidendolo e, spaventato decide di rifugiarsi nel vicino convento, affinché potesse trovare asilo dai parenti dell'ucciso. Durante la sua permanenza in convento, Lodovico, riflette sulla sua vita e matura la decisione di diventare Cappuccino. Dà i suoi beni alla famiglia del servo Cristoforo, morto per lui, e prende il nome di fra Cristoforo. Alla fine i frati convincono i nobili ad accettare sotto segno di pentimento la scelta monacale di Ludovico ora fra Cristoforo. Egli chiede ed ottiene di domandare scusa alla famiglia dell'ucciso in modo da scagionare anche i suoi parenti. Fra Cristoforo ottiene un sincero perdono da tutti e induce i presenti a mitigare la loro superbia. Oltre a predicare e assistere i moribondi, fra Cristoforo opera contro le ingiustizie e per difendere gli oppressi. Intanto il frate, giunto ormai alla casa di Lucia e Agnese, viene accolto con gioia dalle due donne.
Padre Cristoforo, dopo aver parlato con le due donne, capisce che qualcosa di grave era accaduto. Intanto arriva anche Renzo molto esasperato minacciando di farsi giustizia da solo ma Lucia coi suoi modi riesce a calmarlo. Decide di recarsi da don Rodrigo per convincerlo a desistere dal suo proposito con l'aiuto di Dio. Si reca al palazzo del signorotto, dove è ricevuto nella sala da pranzo: è in corso infatti un banchetto, cui il padrone di casa ha invitato un suo cugino, il conte Attilio, e alcuni personaggi importanti del paese, come il dottore Azzeccagarbugli ed il Podestà. Si discute della guerra in corso per la successione del ducato di Mantova, si brinda all'abbondanza (mentre nelle campagne infuria la fame) e si discute su inutili e di poco conto questioni d'onore. Padre Cristoforo è chiamato a dare un suo parere mentre gli viene offerto del vino. Dopo, Don Rodrigo, che sa già del motivo della visita del frate, si allontana dagli ospiti per intrattenersi con padre Cristoforo.
Finalmente don Rodrigo riceve il frate in disparte. Padre Cristoforo accusa il signore di perseguitare Lucia e gli minaccia la vendetta di Dio con l’iconica frase “verrà un girono…”. Don Rodrigo, interrompendo la frase del frate in maniera brusca, lo scaccia e, prima di lasciare il palazzo, ha la promessa di un vecchio e buon servitore che sarà avvertito degli eventuali progetti infami del suo signore. Intanto, in casa di Lucia, Agnese espone ai due giovani un suo bizzarro e al tempo stesso astuto progetto: quello di strappare il matrimonio a don Abbondio, presentandosi con due testimoni e dichiarando l'intenzione di sposarsi. Sembra che secondo l'uso dell’epoca il matrimonio sarà ugualmente valido. Lucia non è molto convinta della cosa; Renzo, da parte sua entusiasta, esce in cerca dei due testimoni. Trova così Tonio, cui promette di pagare un suo debito nei confronti di don Abbondio, e suo fratello, Gervaso.
Padre Cristoforo annuncia, dispiaciuto, alle due donne, il fallimento della sua missione. Renzo si arrabbia molto tanto da portare Lucia ad acconsentire al piano di Agnese solo per calmare il futuro promesso sposo. Intanto nel paese sembra girare gente strana: un mendicante va alla casetta di Lucia a chiedere l'elemosina con l'aria di chi vuole esplorare il luogo; un altro invece per chiedere informazioni circa la strada. Ovviamente si tratta degli uomini di don Rodrigo che studiano un modo per rapire Lucia. Questi sono comandati dal capo dei bravi di don Rodrigo, il Griso. A sera, i due giovani insieme ad Agnese e ai testimoni Tonio e Gervaso, s'avviano in silenzio verso la casa di don Abbondio per costringerlo a confermare il matrimonio. Arrivati, Renzo e Lucia si nascondono, mentre Agnese bussa alla porta della casa del sacerdote. Si affaccia Perpetua e protesta per l'ora tarda, ma, non appena sente che Tonio era arrivato per pagare un debito, dopo essersi consultata con don Abbondio, apre la porta della canonica.
È il capitolo della famosa “notte degli imbrogli”, che comincia col fallimento del tentativo di matrimonio a sorpresa; don Abbondio, con una forza straordinaria e per lui strana, si libera degli intrusi e dà l'allarme. Il campanaro Ambrogio, credendo che la canonica fosse attaccata dai ladri, suona la campana a martello. Mentre il gruppo di Renzo cerca scampo per la campagna, altrettanto sorpresi dall'allarme sono i bravi in azione per rapire Lucia e che hanno trovato vuota la casa della giovane. E così anche un ragazzetto, Menico, che padre Cristoforo, avvertito dal vecchio servitore, ha mandato alla casa delle due donne a scongiurarle di correre da lui. Il ragazzo è bloccato dai bravi, che tuttavia, spaventati dalla campana, lo lasciano libero. Così Menico riesce a incontrare il gruppo di Renzo e ad avvertire i fuggitivi di recarsi al convento di Pescarenico.
Tra i due gruppi in fuga, s'inserisce l'agitazione del paese che, svegliato, non riesce a capire che cosa stia succedendo. Renzo e le due donne giungono al convento dove trovano già organizzata da padre Cristoforo la loro fuga dal paese, per sottrarsi alle minacce di don Rodrigo. Le due donne andranno a Monza, Renzo a Milano, muniti di lettere di presentazione per cappuccini, amici del padre. I fuggiaschi s'imbarcano e in piena notte attraversano il lago.
Qui il famoso “Addio ai monti” che segna la svolta del romanzo e l’inizio di numerose avventure e disavventure dei nostri due protagonisti.
Renzo, Lucia e Agnese raggiungono la parte orientale del lago di Como, poi Monza, e lì si separano. Renzo va a Milano, mentre le donne al convento dei cappuccini, dove incontrano il padre guardiano, al quale fra Cristoforo le ha raccomandate. Si dirigono in seguito al monastero di Santa Margherita, dove vive una monaca di nobile famiglia che ha molti privilegi. L’aspetto fisico della monaca non è proprio quello di una religiosa e cosi Manzoni racconta la sua storia, che continua anche nel capitolo X. Geltrude, figlia di un nobile spagnolo, è destinata fin da piccola alla vita religiosa. Da piccola non si oppone, ma crescendo cerca di ribellarsi al suo destino inesorabile. La reazione dei parenti è dura, con una specie di guerra psicologica basata soprattutto sul silenzio. Allora Geltrude, sfinita dalla situazione e ormai rassegnata, seppur non convinta, dichiara di accettare il volere della sua famiglia.
Geltrude viene ricevuta dal padre, che ritiene che la ribellione della figlia sia gravissima, e le impone di farsi monaca. Da questo momento la sua vita cambia: prima era rifiutata dai parenti, ora è circondata di affetto; prima era sola e prigioniera, adesso può fare tutto ciò che vuole in libertà. Comincia la sua vita religiosa, e ogni volta che potrebbe ritirarsi non ha il coraggio di farlo. Diventa così monaca. Ma non è contenta e si dispera. Ha una relazione con un vicino, Egidio, e per nasconderla arrivano a commettere un omicidio di una consorella di Gertrude che aveva scoperto la relazione tra i due. Conclusa la storia della monaca di Monza, tornano in scena Lucia e Agnese, che vengono accolte da Geltrude con molta generosità. Ma don Rodrigo prepara già la sua vendetta.
Don Rodrigo, attendendo con inquietudine il ritorno dei bravi, pensa alle possibili conseguenze del rapimento di Lucia, ma sa di non correre grossi rischi. Al suo ritorno, il Griso annuncia il fallimento della spedizione e riceve severi rimproveri dal suo padrone. Dopo aver discusso dei fatti della nottata, i due concordano una strategia per scoprire se vi siano state fughe di notizie sul progetto di rapimento. Il conte Attilio viene informato dal cugino del fallito rapimento di Lucia e attribuisce la responsabilità a fra Cristoforo. I due cugini stabiliscono poi di intimorire il console del villaggio, di convincere il podestà a non intervenire, e di far pressioni sul Conte zio, affinché faccia trasferire il frate.
Il Griso, così, si reca in paese per cercare di capire cosa sia successo la notte precedente. Nel villaggio c'è un fitto intrecciarsi di voci: tutti i protagonisti di quei fatti turbolenti commentano l'accaduto. Il bravo riferisce al padrone quelle voci e insieme escludono l'ipotesi di una spia interna al palazzotto. Al termine del colloquio, don Rodrigo incarica il proprio uomo di fiducia di scoprire dove si sono rifugiati Renzo e Lucia. Grazie alle chiacchiere del barocciaio, passate di bocca in bocca, il bravo è in grado di informare il suo signore che Lucia si trova a Monza. Il nobile incarica allora il sicario di proseguire là le ricerche: il Griso, che proprio in Monza è maggiormente ricercato dalla giustizia, cerca di sottrarsi, ma alla fine obbedisce agli ordini.
Renzo, intanto, triste per la separazione da Lucia, procede verso Milano. Giunto alle porte della città chiede ad un passante indicazioni per raggiungere il convento cui è destinato. Entrato in città, il giovane scopre con sorpresa della farina e del pane gettati a terra. Pur con timore raccoglie tre pani. Proseguendo poi verso il centro della città, incontra parecchia gente che trasporta affannosamente pane e farina. Viene colpito dalla vista di una famigliola particolarmente impegnata nel trasporto. Il giovane comprende finalmente che è in atto una rivolta e che la gente sta dando l'assalto ai forni: la sua prima sensazione è di piacere. Renzo decide comunque di star lontano dalla rivolta e va al convento, ma il frate portinaio non gli permette di entrare. Il giovane va così a curiosare tra la folla e si lascia attrarre dal tumulto.Per colpa della carestia provocata da raccolti scarsi, dagli sprechi per la guerra per la successione al Ducato di Mantova e per le numerose pressioni fiscali, ci sono aumenti elle tasse, soprattutto del pane, che provocano il malcontento e la rabbia popolare. Il gran cancelliere spagnolo ha dato l’ordine di diminuire il prezzo provocando le proteste a questo punto dei fornai costretti a lavorare praticamente gratis. Così il governatore Don Gonzalo decide di aumentare il prezzo del pane scatenando le furie e l’odio del popolo.
Inizia così la rivolta di San Martino e i forni vengono devastati e presi d’assalto. La massa si dirige verso il forno "delle grucce" rubando pane, soldi e distruggendo ogni cosa. Renzo, incuriosito da tutto questo movimento, si dirige verso quella zona ascoltando i pareri dei presenti e assistendo al falò in piazza d’ogni cosa. Arriva poi la notizia di nuovi disordini al Cordusio dove c’è gente armata a difesa. La folla è incerta sul da farsi, è indecisa e delusa; si muove allora, come spinta da una forza estranea, passando sotto la statua di Filippo II, per dare l'assalto alla casa del vicario di provvisione, responsabile della scarsità di cibo. Renzo, ormai è in balia della folla e, senza volerlo, si lascia coinvolgere nei tumulti di Milano.
La folla inferocita si dirige verso il palazzo del vicario, che, con l’aiuto dai servi, riesce a barricarsi in casa e a nascondersi in uno stanzino. Alcuni rivoltosi tentano di scardinare la porta del vicario per ucciderlo e tutto questo davanti ai soldati spagnoli, che fanno finta di niente. Renzo, al centro del tumulto, è tra coloro che si oppongono a una giustizia sommaria. Per questo, dopo aver reagito con sdegno alle proposte sanguinarie di un vecchio, rischia il linciaggio. Dal fondo della piazza fa la sua apparizione il gran cancelliere Antonio Ferrer, il quale, forte del sostegno popolare, interviene per salvare il vicario. Nella folla si creano due fazioni, l'una favorevole e l'altra ostile all'intervento di Ferrer. Il cancelliere procede in carrozza attraverso la piazza gremita di gente. Alcuni, tra cui Renzo, si adoperano affinché egli possa avanzare, anche
se con continue fermate. Ferrer promette alla folla di arrestare il vicario e di abbassare nuovamente il prezzo del pane, ma il lettore sa bene che le sue promesse non verranno mai mantenute. Ferrer riesce infine ad entrare nel palazzo del vicario e a trarre in salvo quest'ultimo. Fattolo poi salire sulla propria carrozza, si dirige verso il "castello" continuando a calmare con dolci parole la folla. Scampato il pericolo di un linciaggio, Ferrer comincia a temere per le reazioni dei propri superiori, mentre il vicario, ancora molto spaventato, annuncia di volersi ritirare in una grotta.
La folla ora non è più compatta: si disperde e si ricompone in piccoli gruppi a commentare e a prevedere. Si parla dell'accaduto, delle ragioni che vi stanno sotto, si manifestano propositi di ritorno per il giorno seguente. Renzo, come in una sorta di eccitazione, quasi di ubriachezza, al centro di un crocchio prende la parola e dal fatto milanese risale al fatto personale: parla ad alta voce di ingiustizia, di prepotenze di certi tiranni, del tutto dissimili da Ferrer, manifesta propositi di vendetta e di pulizia, avanza la proposta del tutto rivoluzionaria dell'alleanza di tutto il popolo per la restaurazione della giustizia. Tutti applaudono. Ma ormai è buio: la gente si prepara a tornare a casa. Renzo da uno che gli si è messo alle costole e che gli si dimostra premuroso (è un informatore della polizia) si fa accompagnare in una trattoria vicina: li può mangiare e dormire. A tavola lo sbirro cerca di farlo parlare e di fargli dire nome e cognome: non c'era riuscito l'oste. Ma lui lo fa cadere in un tranello, favorito anche dal fatto che Renzo da uno stato di esaltazione passa, per il molto vino che beve, ad uno stato di effettiva ubriachezza. Sproloquia e nelle sue parole in modi oscuri ed incerti torna l'immagine di don Rodrigo, il persecutore, l'ingiusto e prepotente tiranno che lo ha indotto alla fuga dal suo paese. Finalmente l'oste riesce a portarlo in camera e a buttarlo sul letto.
Renzo, ormai parecchio ubriaco, abbandona la sala da pranzo dell'osteria, tra saluti e risa. Con l’aiuto dell'oste raggiunge così la sua camera. L'oste tenta nuovamente di far dire a Renzo le proprie generalità, ma alle ennesime proteste ci rinuncia. Decide così di andare al palazzo di giustizia e di denunciare Renzo. Arrivato, denuncia al notaio criminale la presenza nella sua osteria di un giovane che non ha voluto rivelare le generalità. Il funzionario, che conosce già il nome di Renzo, mostra però di non accontentarsi delle informazioni fornite dal padrone dell'osteria e sottopone l'uomo ad un interrogatorio. Il notaio criminale e due sbirri entrano violentemente nella camera di Renzo e lo obbligano a seguirli. Intimorito dal rumore che viene dalla strada e che sembra annunciare nuovi tumulti, il notaio abbandona subito l'atteggiamento autoritario e, con buone maniere, cerca di convincere Renzo a seguirli. Il funzionario si mostra eccessivamente gentile ed afferma che si tratta di una pura formalità, ma il giovane non gli crede e comincia ad elaborare un piano per essere liberato dalla folla. Il giovane chiede aiuto. Per sfuggire al linciaggio, gli sbirri e il notaio, abbandonano il prigioniero e si confondono tra la folla.
Uscito dall'osteria di Gorgonzola, Renzo prosegue il suo cammino nell'oscurità, lungo le strade, verso l’Adda. Durante il tragitto, i suoi pensieri vanno al mercante e al suo falso e offensivo racconto. Dopo alcuni paesi, Renzo si ritrova in una zona non coltivata e poi in un bosco. Qui viene colto da un oscuro timore, ma sente il rumore dell'Adda e si precipita verso il fiume. Non potendo attraversare il fiume, si rifugia in una capanna abbandonata. Tenta di addormentarsi, ma nella sua mente si ripropongono ricordi dolorosi. Verso le sei del mattino riprende il cammino verso l'Adda. Traghettato da un pescatore, passa sulla sponda di Bergamo dirigendosi verso il paese di suo cugino.
Giunto nel paese di Bortolo, Renzo individua immediatamente il filatoio e lì trova il cugino, il quale lo accoglie festosamente, dichiarandosi disposto ad aiutarlo. I due cugini si informano reciprocamente sulla rispettiva situazione e sulle vicende politiche dei propri paesi. Dopo essere stato avvertito dell'uso bergamasco di chiamare baggiani i milanesi, Renzo viene presentato al padrone del filatoio e assunto come lavorante.
Al paesello, gli sbirri ricercano inutilmente Renzo e rovistano la sua casa. Don Rodrigo apprende così le disavventure del suo rivale; e intenzionato sempre di più a rapire Lucia, pensa di ricorrere a un uomo più potente di lui per giungere al rifugio della ragazza. E ancora intenzionato a far cacciare il frate Cristoforo da Pescarenico e decide quindi di chiedere aiuto al Conte zio. Agnese, preoccupata per la mancanza di notizie, cerca anche lei Renzo al paese e, da una contadina, viene a sapere che è ricercato dalla giustizia. Mentre per la donna le notizie sono semplice cronaca, per Agnese sono invece motivo di angoscia e disperazione. Viene poi anche a sapere che padre Cristoforo è stato trasferito a Rimini.
Il Conte zio organizza un pranzo al quale vengono invitati alcuni nobili milanesi. Durante il banchetto il Conte, parlando con il padre provinciale, insinua che fra Cristoforo abbia appoggiato Renzo nell'azione rivoltosa del tumulto milanese. Il religioso assicura che farà trasferire Cristoforo in cambio di una prova d'amicizia verso il convento di Pescarenico da parte di don Rodrigo. Al convento di Pescarenico arriva, così, l'ordine di trasferimento per padre Cristoforo. Appresa la volontà del padre provinciale, il frate parte per Rimini.
Si apre qui una nuova figura importante per il romanzo e dai tratti davvero oscuri: viene così narrata brevemente la storia dell'Innominato, le sue azioni violente, il suo atteggiamento indifferente verso la legge, verso la morale e la religione. Viene inoltre descritto in maniera molto veloce il suo castello, posto sul confine tra il Milanese e la Repubblica di Venezia, in modo da poter trovare rifugio nell'uno o nell'altro stato. Don Rodrigo interpella così questo personaggio e, alla fine, richiede e ottiene il suo aiuto per rapire Lucia e per andare al suo castello con un seguito di bravi.Al castello dell’Innominato giunge così don Rodrigo. Gli chiede di far rapire Lucia e l'Innominato accetta, sapendo di poter contare sull'aiuto di Egidio, l'amante di Gertrude. Lasciato andare via don Rodrigo, l'Innominato ripensa ai suoi molti crimini e sembra terrorizzato dall'idea di un giudizio divino. Anche il pensiero del rapimento di Lucia lo preoccupa parecchio; ma pur di mettere a tacere la voce della propria coscienza, invia subito il Nibbio, il capo dei suoi bravi, da Egidio per predisporre il piano.
Convinta così da Egidio a farsi complice del rapimento, Gertrude riesce a mandare Lucia fuori dal convento con la scusa di portare un messaggio al padre guardiano dei cappuccini. Nei pressi di una strada solitaria, Lucia viene avvicinata con l'inganno dai bravi dell'Innominato e caricata a forza su una carrozza. Lucia prega i suoi rapitori che la lascino andare rivolgendo le sue preghiere a Dio. Nel vedere la carrozza che si avvicina alla Malanotte, l'Innominato è tentato di sbarazzarsi subito di Lucia e di farla portare immediatamente da don Rodrigo. Ma la sua coscienza gli consiglia di non farlo e di tenere la fanciulla presso di sé per poco tempo.
Il racconto che il Nibbio fa al padrone del rapimento di Lucia, scuote l'Innominato, che già da tempo si sente profondamente scontento della sua vita; le lacrime di Lucia lo turbano. Durante la notte, mentre la ragazza fa voto di consacrarsi alla Madonna se verrà liberata, egli è assalito da una profonda crisi che lo spinge a meditare il suicidio. Ma all'alba sente suonare le campane nella valle e si alza con propositi nuovi. È questo il capitolo della giustamente famosa “conversione dell'Innominato”.
L’innominato, viene informato da un bravo che tutta quella gente, così festosa, va verso un paese vicino, per vedere il Cardinale Federigo Borromeo, Arcivescovo di Milano. La popolarità, il rispetto e la venerazione che il popolo dimostra verso quest’uomo, fa nascere nell’innominato la speranza che egli possa curare il suo spirito tanto in crisi e che possa pronunciare per lui parole rasserenanti. Presa, quindi, la decisione di parlare con il Cardinale, si reca prima nella camera di Lucia, che intanto sta dormendo in un angolino; sgrida la vecchia serva, per non aver saputo convincere Lucia a dormire sul letto, le raccomanda di lasciarla riposare in pace, e di riferirle, quando si sarà svegliata "che il padrone è partito per poco tempo, che tornerà e che... farò tutto quello che lei vorrà."
Inutile dire che la donna resta sbalordita per lo strano e insolito comportamento del suo padrone, che intanto mette di guardia un bravo, davanti alla porta della camera di Lucia, perché nessuno la disturbi; quindi, risoluto, si dirige verso il paese, dove si trova il Cardinale; e giuntovi, avuta indicazione che egli si trova in casa del curato, va là, entra in un cortiletto, dove sono riuniti molti preti che lo guardano con aria di meraviglia e di sospetto, e chiede di voler parlare al Cardinale. Prima che si svolga il colloquio tra l’innominato e l’arcivescovo, l’autore traccia un profilo di Federigo Borromeo; la descrizione, fatta con calore in tutta la sua splendida grandezza, risulta veramente efficace. Ancora giovinetto, manifestata la vocazione di dedicarsi al ministero sacerdotale, oltre a dedicarsi alle occupazioni prescritte, decide di sua spontanea volontà "di insegnare la dottrina cristiana ai più rozzi e derelitti del popolo, e di visitare, servire, consolare e soccorrere gl’in fermi". Nonostante provenga da una nobile famiglia, tutto il suo comportamento è improntato alla più servile umiltà; teme le dignità, anzi cerca di evitarle, non per sottrarsi al servizio altrui, ma perché non si stima "abbastanza degno, né capace di così alto e pericoloso servizio". Poco più che trentenne, infatti, rifiuta di diventare Arcivescovo di Milano, ma che poi accetterà perché costretto ad accettare su ordine del Papa.
Riduce al minimo le sue esigenze, ed offre tutto ai poveri; per lui, infatti, "le rendite ecclesiastiche sono patrimonio dei poveri". È merito suo la fondazione della biblioteca ambrosiana. Ma quel che più spicca in lui è la bontà, la giovialità, la cortesia verso gli umili. Quanto scrive il
Manzoni, per magnificare questo uomo di virtù, non è frutto ella sua fantasia, ma realtà, tanto è vero che riuscirà a convertire, come per grazia divina, chi si era macchiato di tanti infami crimini: l’innominato.
È il capitolo che descrive in maniera mirabile l’incontro e il dialogo tra l'Innominato e Federigo, incontro che culmina con un lungo abbraccio di riconciliazione. Il Cardinale, conosciuta la vicenda di Lucia, fa chiamare immediatamente don Abbondio, presente con gli altri parroci della zona, e gli affida l'incarico di provvedere al recupero della ragazza e a riportarla a casa.
Dopo questo episodio, ci viene raccontato il viaggio di don Abbondio, grandemente terrorizzato, in compagnia del terribile signore, fino al suo castello.
Lucia viene così liberata e condotta provvisoriamente in paese, nella casa di un buon sarto, dove subito la raggiunge Agnese e poco dopo il cardinale in persona, a cui Agnese racconta tutte le loro vicende.
Mentre si svolge questa scena familiare e carica di emozione, l'Innominato, al castello, avverte i suoi uomini che potranno restare al suo servizio solo se intenzionati come lui a cambiare vita.
Vista la situazione, don Rodrigo pensa bene di lasciare il paese e tornarsene a Milano, prima d'essere costretto a incontrare il Cardinale. Quest’ultimo viene così accolto da don Abbondio al quale chiede informazioni su Renzo. Lucia viene ospitata da una ricca signora, donna Prassede, col beneplacito del Cardinale in persona, il quale finalmente chiede a don Abbondio il perché non abbia voluto celebrare le nozze dei due giovani.
Celebre dialogo tra Federigo e don Abbondio, che sembra ravvedersi, anche se non nasconde le sue buone ragioni. L'Innominato regala a Lucia una dote di cento scudi d'oro; ma ad Agnese che porta alla figlia la buona notizia, Lucia rivela il voto fatto la notte del rapimento. Decidono così di mandare metà della somma a Renzo e di pregarlo di non pensar più al matrimonio. Ma non riescono a mettersi in comunicazione con lui: il giovane ora si fa chiamare Antonio Rivolta e ha cambiato filanda.
La guerra per la successione del Ducato di Mantova, che aveva visto di giorno in giorno l'Italia settentrionale coinvolta nella guerra europea che prende il nome di guerra dei trent'anni, impegnava del tutto l'attenzione del governatore don Gonzalo. Temeva questi che anche Venezia volesse scendere in campo contro la Spagna: bisognava cercare di distoglierla facendo la voce forte contro la Repubblica di Venezia. E l'occasione fu fornita a don Gonzalo dalla notizia che Renzo si era rifugiato nel territorio bergamasco. Di qui la finzione delle ricerche condotte per accertare se Renzo fosse veramente a Bergamo. Era una formalità: Renzo diventò una pratica burocratica. Il potere, di lui non s'accorse, perché era sola un pretesto. Ma Renzo, pur cambiando residenza e nome, continuava a nascondersi: sapeva per esperienza che del potere politico non ci si poteva fidare. Una sola cosa lo tormenta: quella di mettersi in contatto con Agnese e Lucia. Riesce a trovare una fidata trafila e un giorno riceve insieme con una lettera di Agnese cinquanta scudi: Lucia, era detto nella lettera, “non poteva sposarlo più perché aveva fatto voto di castità. Si mettesse il cuore in pace e attendesse agli affari suoi.” Cosa che Renzo si dichiarò non disposto a fare. Il suo unico proposito ora sarebbe stato di convincere Lucia a sposarlo. Lucia, intanto, aveva trovato ospitalità in casa di donna Prassede, una donna che poco poteva sul marito, don Ferrante, un intellettuale che da lei si difendeva chiudendosi tra i suoi libri. Così donna Prassede sfogava la sua volontà di strafare e la sua voglia di fare del bene ad ogni costo (ma il bene coincideva stranamente col suo concetto piuttosto storto di bene) alle persone come Lucia che si erano lasciate traviare. Non altrimenti si poteva e doveva spiegare l'innamoramento della giovane per uno come Renzo che per poco era sfuggito alla forca e che sicuramente doveva essere un poco di buono, se era ricercato dalla polizia. Pensiero dominante di donna Prassede era di liberare la mente di Lucia dall'immagine di Renzo e perciò a lei parlava spesso e in termini duri: Lucia per forza di cose doveva difenderlo da tanta aggressività. Sempre più intensamente la sua immagine le riempiva la testa, sempre come risultato dei metodi educativi di donna Prassede. Nulla c'era da temere dal marito, don Ferrante, un letterato di grande classe: aveva tanti libri e la sua attenzione si fermava su scienze come l'astrologia e la duellistica, dove era diventato un'autorità. Era il tipo di letterato astratto, inutile, formalistica, che non sa legare scienza e realtà, cultura e società.
Questo è un capitolo, in cui il Manzoni abbandona di nuovo i suoi personaggi, per tracciare un quadro storico degli avvenimenti successivi alla rivolta di San Martino, che ebbe come conseguenza un ribasso del prezzo del pane; tale evento storico risultò fatale, in quanto il popolino, affamato, si abbandonò ad uno sfrenato consumo, e troppo tardi si accorse delle disastrose conseguenze, perché così facendo, non solo rendeva impossibile una lunga durata "a goder del buon mercato presente", ma addirittura ne impediva "una continuazione momentanea". Anche i contadini abbandonavano la campagna e si riversavano in città; la situazione era destinata a precipitare; i tentativi di porvi rimedio non ottenevano alcun risultato efficace. Consumate le scorte, la fame divenne un male disastroso, pericoloso e inevitabile.
In città, chiusi negozi e fabbriche, la disoccupazione imperversa e la miseria si spande a macchia d’olio. Accattoni e mendicanti formano una buona parte della popolazione. Il Cardinale Federigo in questa circostanza organizza i soccorsi: forma tre coppie di preti che, seguiti da facchini carichi di cibi e di vesti, girano per la città, per dare aiuto a chi è più in difficoltà. Ma l’interessamento caritatevole del Cardinale, unito alla generosità dei privati e ai provvedimenti dell’autorità della città, si dimostra inadeguato rispetto alla grandezza del male.
Per tutto il giorno nelle strade si ode "un ronzio confuso di voci supplichevoli, la notte, un sussurro di gemiti," ma non si ode "mai un grido di sommossa". Eppure, osserva l’autore, tra coloro che soffrivano "c’era un buon numero di uomini educati a tutt’altro che a tollerare," per cui conclude che spesso "ci rivoltiamo sdegnati e furiosi contro i mali mezzani, e ci curviamo in silenzio sotto gli estremi". Se qualcuno era in grado di fare qualche elemosina, la scelta era ardua; all’ avvicinarsi di una mano pietosa, all’intorno era una gara d’infelici, che stendevano la loro mano. Poiché le strade diventano ogni giorno di più un ammasso di cadaveri, trascorso l’inverno e la primavera, il tribunale di provvisione decide "di radunare tutti gli accattoni, sani ed infermi, in un sol luogo, nel lazzaretto," dove potranno essere aiutati a spese pubbliche. In pochi giorni gli ospitati arrivano a tremila; ma i più, o per godere le elemosine della città o per la ripugnanza di star chiusi nel lazzaretto, restano fuori. Per cacciare dunque gli accattoni al lazzaretto, si deve ricorrere alla forza, e così, in pochi giorni, il numero dei ricoverati sale a circa diecimila. Ma tale iniziativa, sia pur lodevole nelle intenzioni, per l’ammassarsi di tanti infelici in un sol luogo, per l’organizzazione carente e per l’inadeguatezza dei mezzi, è insufficiente. La gente dorme per terra o sulla paglia; il pane è fatto "con sostanze pesanti e non nutrienti"; manca persino l’acqua potabile; perciò la mortalità cresce a tal punto che si comincia a parlare di pestilenza. Per porre rimedio a questa grave e pericolosa situazione, si mandano via dal lazzaretto tutti i poveri non ammalati, mentre gli infermi vengono ricoverati nell’ospizio dei poveri di Santa Maria della Stella. Finalmente, con il nuovo raccolto il popolo ha di che sfamarsi, ma la mortalità, per epidemia o contagio, anche se con minore intensità, si protrae fino all’autunno, quand’ecco, implacabile, un nuovo flagello si abbatte sulla popolazione: la guerra. Infatti il Cardinale Richelieu con il re, alla testa di un esercito, scende in Italia e occupa Casale, tenuto prima da don Gonzalo. Nel frattempo si dispone "a calar nel milanese" anche l’esercito di Ferdinando, nel quale pare che covasse la peste, tanto che si fa divieto a chiunque, quando l’esercito muove all’assalto di Mantova, "di comprar roba di nessuna sorte dai soldati". Ma tale divieto non è preso in considerazione. L’esercito di Ferdinando, era per lo più composto da bande mercenarie, i Lanzichenecchi, che mettevano a soqquadro tutti i paesi, portando via dalle case tutti gli oggetti di valore.
Il passaggio dei Lanzichenecchi, per fortuna, non tocca la fortezza dell’Innominato. Quest’ultimo, ormai convertito e propenso a fare il bene quasi a rimedio di tutte le sue azoni malvagie e crudeli, regala ad Agnese l’ennesima somma cospicua di denaro e un corredo di biancheria per Lucia e le sue nozze. Una volta tornati a casa Agnese, Don Abbondio e Perpetua scoprono che il paese è stato devastato dai soldati e che molti loro beni erano stati distrutti o rubati.
Manzoni sottolinea minuziosamente il comportamento di una popolazione spaventata. La peste agisce generalmente in poche ore, a volte di più, portando rapidamente alla morte i poveri contagiati. In pochi casi si guarisce e solo così si è immuni.
La peste provoca la degenerazione delle ghiandole linfatiche in bubboni. Vengono organizzate riunioni all’aperto per pregare insieme perché Dio faccia scomparire questa tremenda malattia, il che, invece di fermarne la diffusione, la accelera, dato che la gente sana si trova a contatto con quella malata e così veniva contagiata facilmente. Gli abitanti iniziano addirittura a pensare che ci sia qualcuno che di proposito diffonde la malattia: gli untori. In realtà questi fantomatici untori non esistono, nonostante si siano verificati casi in cui il popolo, spinto dalla disperazione, abbia deciso di uccidere qualcuno sospettato di aver diffuso intenzionalmente la peste. Un esempio eclatante è il vecchio che venne ucciso solamente perché, in Duomo, prima di sedersi, aveva spazzolato la panca con il proprio cappello. Questo fatto gli costò la terribile accusa di star spargendo la malattia.
Incapaci di affrontare il grave pericolo, alcuni magistrati del comune di Milano si rivolgono al governatore per sollecitare un aiuto economico diretto e per impedire il passaggio devastante delle truppe dei Lanzichenecchi nella zona di Milano. Insieme a questo episodio vengono fatti pressanti richieste al Cardinale Federigo per organizzare una processione con il corpo dello zio Carlo Borromeo. La richiesta viene inizialmente rifiutata per impedire la delusione rispetto a un mancato miracolo e per scongiurare un’ulteriore diffusione del contagio ad opera degli untori.
In questo clima di terrore, vengono linciati e arrestati un vecchio innocente e tre francesi accusati di essere degli untori.
Dopo un po' però Federigo Borromeo viene convinto e si iniziano i preparativi per la processione. Il giorno seguente il numero delle vittime per contagio aumenta vertiginosamente e vengono assunti dei "monatti" per trasportare i cadaveri nelle fosse comuni. Durante questo periodo non mancano le opere di bene, attuate dal Cardinale; ma non mancano neanche sopraffazioni e violenze di vario genere, come i saccheggi da parte degli stessi monatti. Gli effetti più dolorosi del dramma si riscontrano nel propagarsi delle dicerie sugli untori, considerati i soli colpevoli e artefici della peste. Alla fine, Manzoni fa una introduzione per dare il via alla fase finale della storia di Renzo e Lucia.
Anche don Rodrigo si ammala di pese (e qui sembra compiersi la profezia che gli venne fatta da padre Cristoforo): lo scopre una sera tornando da un festino dove aveva celebrato ironicamente il morto conte Attilio. Chiede così aiuto al Griso perché chiami un medico, ma il “fidato” bravo chiama invece i monatti per portarlo via al lazzaretto. Anche quest’ultimo, si ammalerà di peste e morirà prima di don Rodrigo. Di peste s'ammala inoltre anche Renzo, ma la forte e contadinesca tempra lo salva. Superata la convalescenza decide di far ritorno al suo paese in cerca di Lucia. Nessuno, in tanta confusione, si preoccuperà di lui e dei suoi problemi con la Giustizia. Salutato il cugino Bortolo, riattraversa l'Adda e arriva al suo paese. Dovunque ci si giri, si vedono i segni della morte, dell'abbandono, della sofferenza e della guerra. Incontra Tonio in camicia che dice cose senza senso: la malattia lo aveva reso pazzo e fatto somigliare stranamente al fratello folle. Da un angolo della strada vede avanzare una macchia nera: è don Abbondio che ha perso Perpetua. Il prete è malconcio, ma nonostante questo si preoccupa della presenza di Renzo (per lui fonte di molti guai). Di Agnese racconta che si è rifugiata a Pasturo, mentre di Lucia dice che è a Milano a casa di don Ferrante. Altro non sa. Vorrebbe solo una semplice cosa: che Renzo torni al più presto da dove sia venuto. Renzo passa poi accanto alla sua vigna ormai ridotta a un insieme indistinto e sporco di piante, di rampicanti e di rovi. Sembra che anche questa sia stata investita e rovinata pesantemente dalla peste e dalla devastazione dei Lanzichenecchi. A sera trova rifugio in casa di un amico. Il giorno seguente decide poi di andare a Milano in cerca di Lucia.
Renzo, ansioso di rivedere finalmente la sua Lucia, arriva a Milano. Basta una moneta per ottenere il rapido consenso della guardia ed entrare in città senza alcun problema. Entrando in città avverte dovunque la desolazione per colpa della peste. L'attenzione di Renzo è poi richiamata dalle grida disperate di una donna rinchiusa in casa con i suoi bambini, perché il marito è morto di peste. La donna rischiava di morire di fame. Renzo le dona così il poco pane che aveva con sé e le promette di chiamare qualcuno per aiutarla. Infatti, poco dopo, incontra un prete, al quale affida la donna e gli chiede informazioni su dove abita donna Prassede. Ma via via che scorre lungo i quartieri della città, da quelli periferici a quelli del centro, Renzo si imbatte in scene terribili di dolore e morte. Carri guidati da monatti erano adibiti alla raccolta dei malati e dei cadaveri. Assiste così all'episodio della madre di Cecilia, una bambina morta di peste. La scena è straziante e il Manzoni la descrive con grande maestria, facendoci provare ciò che tutti i personaggi lì coinvolti provavano. Riesce poi a trovare finalmente la casa di don Ferrante, ma qui viene a sapere che Lucia è al lazzaretto, l'ospedale degli appestati. Scambiato per un untore, riesce a fatica a scappare da un gruppetto di gente imbestialita, saltando su di un carro di monatti. Renzo non vede l’ora di lasciare quella strana compagnia e, appena gli pare riconoscere la strada, a Porta Orientale, scende dal carro. Il lazzaretto non è lontano. Renzo entra e si ferma un momento in mezzo al portico a contemplare quel mare di dolore.
L'aria si fa sempre più pesante, il cielo si copre di una coltre di forte umidità, quando Renzo entra nel lazzaretto: un insieme di capanne e di fabbricati, costruiti per la situazione, accanto ad altri in muratura. L'impressione è quella del covile segnato da un vasto brulichio prodotto da sani e malati, da volontari e da folli, impazziti per la peste, da gente variamente indaffarata. Su tutto domina l'organizzazione imposta dai cappuccini ed è, il loro, un ordine esemplare sempre tenendo conto che bisogna amministrare, confortare, curare o avviare al cimitero ben sedicimila appestati. La visione generale è quella che insorge da un luogo che è un condensato, un contenitore di grandi sofferenze su cui incombe l'aria ed il cielo carico di nebbia. Il primo gruppo di malati, collocati a parte, dentro un recinto, è quello dei bambini allevati da nutrici e da capre: alcuni sono neonati ed hanno bisogno di costante cura ed attenzione. Molte donne guarite dalla peste provvedono alla cura dei bambini: ma anche le capre, quasi consapevoli della grande sofferenza, offrono mansuete il proprio latte ai bambini. È uno spaccato di umanità che intende sopravvivere e resistere nonostante tutto sembri andare verso la morte o la disperazione. E proprio in un atteggiamento di padre che si cura dei propri piccoli, Renzo intravede dopo tanto tempo la cara immagine di fra Cristoforo. L'incontro tra i due è carico di affetto e di ricordi. Il padre dopo essere stato per anni a Rimini, grazie alle costanti pressioni esercitate sui superiori ha ottenuto di ritornare a Milano e di essere adibito al servizio dei malati. Renzo gli fa un breve resoconto delle sue avventure e dice di essere nel lazzaretto in cerca di Lucia. Potrebbe essere, se è ancora viva, nel recinto assegnato alle donne ma, ad un uomo, è proibito entrarvi. Il padre lo autorizza comunque date le buone intenzioni che lo animano. E Lucia? Sarà viva? Se non dovesse esserlo, Renzo si dice pronto a vendicarsi di don Rodrigo, che è all'origine di tutte le disgrazie sue e di Lucia. E a questo punto fra Cristoforo lo sgrida pesantemente e, alla legge di vendetta, contrappone la legge cristiana del perdono e della carità. Lui, che ha fatto l'esperienza dell'assassinio di un uomo, sa quanto desolata e terribile sia la strada della vendetta e quanto allontani da Dio e quindi dall'umanità la ricerca di una giustizia che impone morte per morte. La vera giustizia è la carità che compensa la morte di un uomo con la crescita ideale di nuova umanità. Renzo convinto, si dice disposto al perdono del suo avversario. E il frate lo conduce in una capanna dove gli mostra don Rodrigo moribondo: ecco come si è ridotto colui che voleva farsi padrone della vita degli altri! E il padre non sa decidere se il signorotto sia in quelle condizioni per un castigo o per un atto di misericordia divina.
Finita la processione, Renzo si avvia negli angoli di lazzaretto riservati alle donne; poi, messosi accanto ad una capanna, sente l’inconfondibile voce di Lucia. Entra nella capanna e finalmente ritrova l’amata. L’incontro tra i due è carico di emozione e, nonostante Lucia sia felice nell’aver ritrovato il suo Renzo, un nuovo impedimento si mette in mezzo ai due: Il voto, che nonostante tutto Lucia insiste ancora a voler rispettare, risulta incomprensibile al cuore del povero Renzo. Interviene così fra Cristoforo che, ascoltata da Lucia tutta la storia del voto, comprende che si tratta di un gesto nobile ma legato ad una particolare situazione di disperazione in cui si trovava la giovane. Così il frate pronuncia la formula di scioglimento, ed insieme dà a entrambi un consiglio: possono tornare come promessi sposi e ai pensieri di una volta, mantenendo una vita spesa per la ricerca del bene. Così il frate si allontana dai due e con ormai nel volto i segni indelebili della peste. Lucia resta nella capanna ad assistere la mercante che le si è affezionata. Renzo, invece, decide di partire subito per andare ad avvertire Agnese dell’accaduto e dell’imminente ritorno a casa di Lucia.
Uscito dal lazzaretto Renzo è investito da un temporale. Questo fatto viene interpretato e raccontato dal Manzoni come segno di un nuovo inizio e come il modo che la provvidenza ha per segnare la fine della peste. Dopo questo episodio arriva finalmente a casa di Agnese e qui avviene il primo ricongiungimento dopo quello con Lucia; ritorna poi a Bergamo, dal cugino, per cercare una casa che sarà la dimora della nuova famiglia di Renzo e Lucia; poi ritorna di nuovo al paesello ad aspettare Lucia che, finita trascorsa la quarantena, sta ritornando.
Prima della partenza da Milano molte sono le notizie che la giovane riceve: viene a conoscenza della morte di fra Cristoforo ormai schiacciato dall’età e dalla peste; si è aperto il processo contro la monaca di Monza; l’epidemia ha ucciso anche donna Prassede e suo marito don Ferrante.
Lucia fa ritorno al suo paesello e può così finalmente ritrovare la madre Agnese ed il promesso sposo Renzo. Dopo i primi festeggiamenti per il tanto sospirato ricongiungimento, il ragazzo va subito a fare visita a Don Abbondio e chiede nuovamente al prete di celebrare il matrimonio. Don Abbondio continua ancora a proporre scuse per non compiere il proprio dovere, puntando soprattutto sul mandato di cattura di Renzo e sulla sconvenienza di celebrare pubbliche nozze nel territorio di Milano. Il giovane fa ritorno alla casa di Lucia e racconta l'esito della missione alle donne. Nel pomeriggio dello stesso giorno Agnese e Lucia tentano nuovamente di convincere il prete a celebrare il matrimonio. L'esito sarebbe stato ancora lo stesso se Renzo prima ed il sagrestano Ambrogio poi non avessero comunicato a tutti loro che la casa di Don Rodrigo è stata occupata da un marchese parente del tiranno e molto famoso per la sua bontà. La notizia rende certa la morte di Don Rodrigo e don Abbondio, venuta meno la sua fonte di terrore, cambia completamente atteggiamento: si dichiara disponibile a celebrare il matrimonio e scherza amorevolmente con tutti sulle vicende appena vissute. Il giorno dopo il prete riceve anche una visita dallo stesso marchese e saputo che l'uomo vuole risarcire Renzo e Lucia per i danni causati loro dal suo parente deceduto, consiglia di comprare a buon prezzo le case dei giovani e di attivarsi per fare annullare il mandato di cattura pendente sul ragazzo. Renzo e Lucia diventano così sposi e ricevono in dono anche l'assoluzione di Renzo ed un'altra sostanziosa donazione di denaro (la compravendita delle case avviene per mano di un dottore, non però di Azzeccagarbugli, morto di peste). Dopo un doloroso e commosso addio a tutti gli amici e i conoscenti, Renzo, Lucia ed Agnese lasciano il paese ed il territorio di Milano per raggiungere Bortolo nel territorio bergamasco. La vita nella loro nuova residenza non è però felicissima per Renzo: sapute le vicende dei due giovani, l'aspettativa in paese per l'arrivo di Lucia è altissima e non mancano i commenti negativi quanto tutti si accorgono che si tratta comunque di una semplice contadina. Quando viene messo in vendita un filatoio a buon prezzo alle porte di Bergamo, il giovane non esita a comprarlo insieme al cugino e a lasciare così anche questo paese. Aspettative per Lucia non ce ne sono più ed i due sposi possono finalmente godersi la pace del matrimonio, dando anche alla luce numerosi figli, la prima dei quali, come promesso, viene chiamata Maria. Il romanzo termina con la celebre morale detta da Lucia: «...lo non sono andata a cercare i guai: sono loro che sono venuti a cercar me... i guai vengono bensì spesso perché ci si è dato cagione; ma la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani...».